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— Eppure crederci bisogna, — le dissi. — Se non credi in qualcosa, non vivi.

Cate mi prese per il braccio. — Tu credi in queste cose?

— Siamo tutti malati, — le dissi, — che vorremmo guarire. È un male dentro, basterebbe esser convinti che non c’è e saremmo sani. Uno che prega, quando prega è come sano.

Allora Cate mi guardò sorpresa. Mi aspettavo un sorriso, che non venne. Disse: — I veri malati bisogna curarli, guarirli. Pregare non serve. È cosí in tutto. Lo dice anche Fonso: «Conta quello che si fa, non che si dice».

Poi parlammo di Dino. E fu piú facile. Cate ammise che avrebbe dovuto tirarlo su con piú coraggio, insegnargli a capire le cose da sé, lasciargli il tempo di decidere, ma non c’era riuscita. La nonna a volte lo portava a messa e lo mandava al catechismo. Io le dissi che, comunque si faccia, i bambini non sanno decidere e che mandarli o non mandarli al catechismo è già una scelta, è insegnargli qualcosa che loro non hanno voluto. — È religione anche non credere in niente, — le dissi. — A queste cose non si scappa.

Ma Cate disse che doveva esser possibile spiegare a un bambino le due idee e poi dirgli di scegliere. Allora mi venne da ridere, e sorrise anche lei, quando le dissi che il modo migliore di fare un cristiano è insegnargli a non crederci, e viceversa. — È vero, grido, — è proprio vero — . Ci fermammo davanti al cancello, il cane mi saltava già intorno, fu l’unica volta che parlammo di questo. La sera dopo non la vidi alla fermata del tram.

Proprio quel giorno avevo pensato di farmi vedere oltre Dora dagli altri. Poi, per il freddo e la lunga strada non c’ero andato. Rientrai sotto le piante spoglie, rimuginando quella storia del nostro discorso, ripensando a Castelli. L’Elvira mi disse che c’era stato un giovanotto che mi chiamava alle Fontane. Non sapeva chi fosse. Partii subito, prima di buio, seccato che l’Elvira fosse messa al corrente in quel modo. Mi gridò dietro se tornavo a cena.

Li trovai tutti, meno Fonso e Giulia. Nando, sulla porta, mi fece un cenno preoccupato. Sui tavolini, nel cortile, intravidi valige e fagotti. Tutti giravano in cucina, Dino rosicchiava una mela.

Fu Cate che disse: — Ah, ci sei.

Volevano avvertirmi che non andassi oltre Dora. — Volano basso, — disse Nando. — Si comincia.


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