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vanti a un disagio, a un allarme, a un’alba agghiacciata di brina, all’angoscia delle notizie. Ci pensavo soprattutto la notte andando a letto nell’ombra o la mattina scendendo a Torino mentre il sole accendeva di oro cruento le vetrate di un quarto piano. L’inverno, i bagliori, le caligini dorate del mattino, mi avevano sempre conciliato col mondo, dato un brivido di speranza. Ancora nei primi anni di guerra, l’idea che nel mondo durassero di questi piaceri mi dava un senso all’attesa. Ora anche questo dileguava, e non osavo alzare il capo.

Di suo fratello Egle ci aveva chiacchierato con volubilità. Lo dava per quasi rinsavito e pareva tranquilla. No, ai tedeschi non era passato, non valeva la pena. Ma nemmeno s’era messo coi nemici di ieri, era troppo leale lui; stava a Milano, lavorava da ingegnere in una industria, seminascosto con certi amici. S’era messo in borghese.

Dovendo fuggire, mi chiedevo in quei giorni, dovendo nascondermi, dove sarei andato, dove avrei dormito la notte e mangiato un boccone? Avrei trovato un altro luogo come questa casa, un po’ di caldo, un respiro? Mi sentivo braccato e colpevole, mi vergognavo dei miei giorni tranquilli. Ma pensavo alle voci, alle storie, di gente rifugiata nei conventi, nelle torri, nelle sacrestie. Che cosa doveva essere la vita tra quelle fredde pareti, dietro a vetrate colorate, tra i banchi di legno? Un ritorno all’infanzia, all’odore d’incenso, alle preghiere e all’innocenza? Non certo la cosa peggiore di quei giorni. Trovai in me la velleità, quasi la smania, di essere costretto a questa vita. Prima, passando davanti a una chiesa, non pensavo che a zitelle e a vecchi calvi inginocchiati, a fastidiosi borbottii. Che tutto questo non contasse, che una chiesa, un convento, fossero invece un rifugio dove si ascolta con le palme sul viso calmarsi il battito del cuore? Ma per questo, pensavo, non c’era bisogno delle navate e degli altari. Bastava la pace, la fine del sangue sparso. Ricordo che stavo traversando una piazza, e il pensiero mi fece fermare. Trasalii. Fu quella una gioia, una beatitudine inattesa. Pregare, entrare in chiesa, pensai, è vivere un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue.

Ma la certezza dileguava. Poco dopo, trovata una chiesa, c’entrai. Mi soffermai presso la porta, poggiato alla fredda parete. C’era in fondo, sotto l’altare, un lumicino rosso; nei banchi, nessuno. Fissai gli occhi a terra e ripensai quel pensiero, volli rigodere la


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