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XV.

L’anno finí senza neve e, alla ripresa delle lezioni, coi colleghi non si parlò che di Castelli. — Meno male che non fa freddo, — dicevano. — Però, se è vero che ha un principio di diabete, ci lascia le ossa — . Che cosa si poteva fare per lui? — Niente, — bisbigliavamo, — niente. La macchia potrebbe allargarsi — . Lucini taceva, costernato e cattivo. Quando arrivavo sul portone della scuola, mi aspettavo ogni volta di vederci una macchina, dei tedeschi, dei militi. — Saremo tutti sorvegliati, — disse un altro, — i ragazzi, le case. Che storia. Ci prenderanno come ostaggi.

Il vecchio Domenico disse: — Siamo al punto che, se uno sta male, non può piú coricarsi.

— Professore, si riguardi, — gridavano i piú svegli dei ragazzi.

In quei giorni anche il preside mi fece quasi compassione. Cacciava sospiri e trasaliva a ogni squillo del telefono. Era evidente che Castelli si era messa da sé la corda al collo parlando col provveditore. Quella sua faccia molle e triste non la rimpiangeva nessuno. Se l’era voluto. Del resto, a ripensarci, non viveva già prima come dentro una cella, solitario e testardo? Ma tutti vivevamo cosí, dietro pareti, in paura e in attesa, e ogni passo, ogni voce, ogni gesto inatteso ci prendeva alla gola. — Silvio Pellico almeno, — sorrise un giorno il preside, — si è accontentato di andar dentro, senza mettere nei guai nessun collega...

— Ma non ci sono dei parenti?

— Per carità, ci pensi lui.

Scordammo anche Castelli. Voglio dire, smettemmo di parlarne. Ma come Tono, come Gallo, come il soldato di Valdarno e il fratello dell’Egle, Castelli mi tornava in mente all’impensata, da-


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