Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/89



Pensai incredulo alle vigne e alle colline di quassú. Che anche qui si sparasse, si tendessero imboscate, che le case bruciassero e la gente morisse, mi parve incredibile, assurdo.

— Mi saprete poi dire, — uscí la moglie di Nando, — se gli inglesi vi diranno grazie.

— Va’ là, — disse Fonso. — Non combattiamo per gli inglesi.

La stanza sapeva di fumo e di vino. Anche Cate accese una sigaretta. Apersero la radio. Il baccano aumentò, e si stava bene in quel calore, appoggiati alla stufa, ascoltando le voci. Ero uscito un momento prima nel cortile, con Dino, e mentre lui s’accovacciava nel buio, m’ero perso un momento nelle stelle e nel vuoto. Le medesime stelle di quand’ero ragazzo, le medesime che balenavano sulla città e sulle trincee, sui morti e sui vivi. Non c’era su quelle colline un cantuccio, un cortile di pace, donde almeno per quella notte guardare senza batticuore le stelle? Dalla porta veniva il brusio della cena e pensai che avevamo la morte sotto i piedi. Poi Dino mi chiamò, rientrammo in casa, e il calore ci avvolse. Le ragazze cominciarono a cantare.

Scesi a Torino il giorno dopo. Passai da scuola e ci trovai Fellini col berretto negli occhi. Chiacchierò delle feste, poi disse: — C’è qualcuno che ha fatto un Natale di merda.

Fellini parlava cosí, con un ghigno insolente. Attesi il resto, e venne subito.

— Non lo sapete di Castelli? L’hanno sospeso e messo dentro.


85