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In quei giorni, mi scrissero da casa per le feste. Scriveva mia sorella, mi dava conto delle terre, si lagnava che stessi in città anche quell’anno. Certo i viaggi erano brutti, e i treni scomodi, agghiacciati. La vita è brutta dappertutto, diceva, qui non ci sono novità. La lettera era chiusa in un cestino di frutta e di carne; c’era anche il dolce di Natale.

Metà del cestino lo portai alle Fontane per una cena di fine d’anno che con Cate c’eravamo promessa. Dovevano venire tutti. La nonna e le ragazze lavorarono un giorno a cucinare; Dino girò con me la collina per cardi e castagne. Era un giorno brullo, dorato; quest’anno la neve non s’era ancora vista. Dino mi raccontò che in città era stato a vedere il marciapiede dove avevano fucilato tre patrioti; c’erano ancora le macchie di sangue: se arrivava il giorno prima, vedeva i cadaveri. Qualche passante si voltava e sbirciava quel punto. Gli dissi di smetterla e pensare alle feste. Lui disse ancora che nel muro si vedevano i segni delle pallottole.

Alle Fontane lo aspettava un pacchetto di libri e una lampadina tascabile; li avrebbe trovati al ritorno. Cate mi aveva già ringraziato. Non ero certo che a Dino il regalo sarebbe piaciuto. Non ne avevo mai fatti a un ragazzo. Ma si poteva regalargli una pistola?

Rientrammo intirizziti e contenti. Nella cucina faceva un buon caldo. Cerano i vecchi, Fonso, Giulia, Nando, tutti. — Quest’è un posto sicuro, — dicevano. — Non ci si vive con l’affanno come a Torino.

— Pensare, — dicevano, — che in cantina c’è tanto da metterci al muro tutti quanti. Anche voi, nonna.

Le ragazze ridevano e portarono in tavola. — Adesso è Natale, smettiamola, — disse qualcuno.

Parlammo di Tono. Era in Germania, allo sterminio. Parlarono di altri, che non conoscevo, di fughe, di colpi di mano. — C’è piú gente in montagna che a casa, — disse la moglie di Nando, — chi sa come faranno Natale.

— Sta’ tranquilla, — brontolò Fonso, — gli abbiamo mandato anche il vino.

Io guardavo il vecchio Gregorio che tranquillo, in panciotto e spalle curve, masticava i bocconi. Non parlava, sembrava ascoltasse, guardava tranquillo, come se quei discorsi li sentisse ogni giorno da quando era nato. L’inquietudine della nostra allegria


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