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XIV.
Avevo smesso di andarli a trovare in casa loro, dove anche Cate passava un’ora al pomeriggio. Avevo smesso perché Fonso e Nando erano sempre fuori — fuori città, addirittura — e perché queste cose o si fanno davvero o non ha senso cominciarle. Compromettersi per gioco è troppo stupido. Ma dappertutto c’era rischio ormai. Viviamo in tempi che nessuno — per quanto vigliacco — è sicuro di svegliarsi domani nel letto. Come per le incursioni. E ha ragione la vecchia. Hanno ragione i preti. Abbiamo colpa tutti quanti; tutti dobbiamo pagare.
Chi pagò per primo fu il piú innocuo. Castelli. Malgrado l’irrequietezza dei ragazzi e i discorsi melliflui del preside, malgrado una nuova feroce incursione che ci cacciò in cantina come topi, i grandi corridoi delle aule, il cortile spoglio e i silenzi consueti facevano ancora della scuola un rifugio e un conforto come un vecchio convento. Pareva strano che qualcuno pensasse di trovare altrove la pace e la buona coscienza. Ma Castelli, ormai succube di quell’assurdo Lucini, Castelli che dava già qualche lezione privata, non chiese a Lucini come mai non se ne andasse anche lui. Passeggiavano insieme nell’atrio e Lucini s’accigliava, piccolotto e aggressivo, mostrava i denti, annuiva. Castelli ebbe una breve seduta col preside, e un bel giorno presentò la sua domanda.
Me lo disse la segretaria, dubbiosa, commentando: — Beati i diabetici — . Ma la cosa non andò liscia. Fui convocato in presidenza anch’io. Dal tono del preside capii che qualcosa bolliva. Non era un’inchiesta, per carità. Non gli pareva fosse il caso. Voleva soltanto sentire se qualcosa sapevo della decisione di un collega, se non s’erano fatti discorsi, se ritenevo che motivi estranei... Poi
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