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carogne, traditori, vigliacchi. M’accorsi che le vuote frasi di un tempo non facevano piú ridere. Le catene, la morte, la comune speranza, acquistavano un senso terribile e quotidiano. Ciò che prima era stato nell’aria, era stato parole, adesso afferrava alle viscere. Nelle parole c’è qualcosa d’impudico. In certi istanti avrei voluto vergognarmi.
Invece tacevo. Avrei voluto scomparire come un topo. Le bestie, pensavo, non sanno quel che avviene. Invidiavo le bestie. Le mie donne di casa avevano di buono che ignoravano ogni cosa della guerra. L’Elvira capí subito questa sua forza. Adesso anche il freddo mi ricacciava in casa; e rientrarci da Torino, dal frutteto, dalle vuote camminate per la collina gialla e spoglia scordando un momento nel suo tepore di tana la eterna monotona angoscia e paura, mi riusciva quasi dolce. Anche di questo avrei voluto vergognarmi.
Veniva Dino, in quei mattini di novembre, e studiavamo sui suoi libri, lo facevo parlare di quel che sapeva. Di punto in bianco lui smetteva la lezione e usciva a raccontare delle ultime voci, di quel che aveva detto un viandante, dei tedeschi, dei patrioti alla macchia. Sapeva già le prime storie di colpi inverosimili, di beffe, di spie giustiziate; se entrava l’Elvira, smetteva. A ogni nuova notizia pensavo quale enorme leggenda si andasse creando in quei giorni e come soltanto un ragazzo che di tutto si stupisce poteva viverci in mezzo senza stupore. Che io non fossi un ragazzo come Dino, era soltanto un caso; lo ero stato vent’anni prima, e i miei stupori d’allora erano futili in confronto dei suoi. «Ecco, — dicevo, — se morissi in questa guerra, di me non resta che un ragazzo».
— Non metti piú quel vestito bianco alla marinara? — gli chiesi.
— Lo porto a scuola. Quando riaprono le scuole?
Anche l’Elvira che, finita la lezione, lo chiamava alla credenza e gli dava dei dolci, voleva sapere da lui se sarebbe tornato a scuola, se aveva delle sorelle, se ricordava suo padre. Dino rispondeva buffoneggiando e insieme aggrottandosi infastidito.
— Mi somiglia, — dicevo all’Elvira. — Quando da ragazzo qualcuno mi baciava, mi pulivo la faccia con la manica.
— Ragazzi, — diceva lei, — ragazzi d’oggi. La madre lavora e il bambino viene su come può.
— Non c’è figlio di contadini che sua madre non lavori, — dicevo. — Cosí è sempre stato.
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