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XIII.

Ormai non c’era piú dubbio. Accadeva da noi quel che da anni accadeva in tutta Europa — città e campagne allibite sotto il cielo, percorse da eserciti e da voci paurose. In quei giorni non moriva soltanto l’autunno. A Torino, sopra un mucchio di macerie, avevo visto un grosso topo, tranquillo nel sole. Tanto tranquillo che al mio avvicinarsi non aveva mosso il capo né trasalito. Era ritto sulle zampe e mi guardava. Degli uomini non aveva piú paura.

Veniva l’inverno e io avevo paura. Al freddo ero avvezzo — come i topi, come tutti — avvezzo a scendere in cantina, a soffiarmi sulle mani. Non erano i disagi, non le rovine, forse nemmeno la minaccia della morte dal cielo; bensí il segreto finalmente afferrato che potevano esistere dolci colline, una città sfumata di nebbie, un indomani compiaciuto, e in tutti gli istanti accadere a due passi le cose bestiali di cui si bisbigliava. La città si era fatta piú selvaggia dei miei boschi. Quella guerra in cui vivero rifugiato, convinto di averla accettata, di essermene fatta una pace scontrosa, inferociva, mordeva piú a fondo, giungeva ai nervi e nel cervello. Cominciavo a guardarmi d’attorno, palpitando, come una lepre agli estremi. Mi svegliavo di notte, in sussulti. Pensavo a Tono, ai sogghigni di Fonso, alle congiure, alle torture, ai morti freschi. Pensavo ai paesi dove da piú di cinque anni si viveva in questo modo.

Anche i giornali — c’erano ancora dei giornali — ammettevano che sulle montagne qua e là c’era stata resistenza, e continuava. Promettevano pene, perdoni, supplizi. Soldati sbandati, dicevano, la patria vi comprende e vi chiama. Finora ci siamo sbagliati, dicevano, vi promettiamo di far meglio. Venite a salvarvi, venite a salvarci, perdio. Voi siete il popolo, voi siete i nostri figli, siete


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