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rideva, sperava di arrivare in Valdarno. Non ci chiese da mangiare né da bere. Era pallido, semibarbuto, ma si doveva esser già inteso con la ragazza del locale che, infagottata e strabica, se lo covava con gli occhi da dietro il banco.
— Il fondovalle era guardato da quei bastardi, — diceva. — Mai passare in terreno scoperto. Sparavano. Ho veduto bruciare tanti paesi.
— Ma non c’è mica stata guerra su in montagna, — disse un tale.
— Che guerra. Rappresaglie, — disse un altro. — Un paese nasconde un soldato e i tedeschi gli dànno fuoco.
— Una notte, su un ponte... — raccontava il toscano, e sogguardava la ragazza.
Tutti ascoltammo, inghiottendo la saliva. Il toscano chiese una deca, divertito. Vennero altre storie. Ne raccontarono gli avventori, contadini pacati. Storie fredde, incredibili, arresti di donne e bambini per prendere l’uomo, bastonature finite con un salto dalle scale, raccolti devastati, estorsioni, cadaveri in piazza con la deca tra le labbra.
— Era meglio la guerra, — dicevano. Ma tutti sapevamo che la guerra era questa.
— Speriamo che il tempo si mantenga al bello, — disse il toscano.
Andai sovente da solo per le strade consuete, evitando le Fontane, Dino, Cate e i suoi discorsi; ma il discorso e l’affanno cui siamo ormai incalliti, rinascevano allora dappertutto, stimolati da un’ansia d’incredibilità, da una residua speranza, da un egoismo ancora lecito. Ora che anche quei giorni sembrano un sogno e salvarsi non ha quasi piú senso, c’è in fondo a tutti gli incontri e i risvegli una pace disperata, uno stupore di esser vivi ancora un giorno, ancora un’ora, che mette allegria. Non si hanno piú molti riguardi, né per sé né per gli altri. Si ascolta, impassibili.
Senza volerlo, mi svegliavo all’alba c correvo alla radio. Non ne parlavo con l’Elvira e con la madre. Scorrevo il giornale. Ogni notizia allontanava di mesi la fine. Torino in fondo alla valle mi faceva paura. Ormai nemmeno il fuoco e i crolli — che non vennero — bastavano piú a spaventarci. La guerra era scesa tra noi, dentro le case, per le vie, nelle prigioni. Pensavo a Tono, alla sua grossa testa china, e non osavo chiedermi cosa fosse di lui.
L’Elvira e la madre mi trattavano materne, un po’ torve, sommesse. C’era una pace, in quella casa, un rifugio, un calore come
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