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Disse questa, strizzandomi gli occhi e reclinando il capo, com’era il suo vezzo.
- Non conosco teppisti, - tagliai, - conosco gente che lavora.
- Ecco, s’arrabbia, - mi guardò divertita. - Sappiamo che va all’osteria, sappiamo chi ci trova...
- Cose da pazzi, - tagliai corto, - e chi sarebbero i teppisti?
Egle tacque, e abbassò gli occhi con un’aria sostenuta.
- Di teppisti, - le dissi, - conosco soltanto quelli che ci hanno messo in guerra e che ancora ci sperano.
Mi fece gli occhiacci, ansimando. Pareva una scolara presa in fallo e inferocita.
- Suo fratello non c’entra, - le dissi. - Suo fratello è un illuso, che paga per gli altri. Ma almeno ha coraggio. Che quegli altri non hanno.
- Lei ne ha molto, - disse l’Egle, rabbiosa.
Cosi ci lasciammo. Ma la storia dell’osteria cominciava appena. Un giorno che entrai in cucina e l’Elvira sbatteva una panna (era il suo regno la cucina, e voleva sedurmi col dolce; ma la madre non vedeva di buon occhio lo spreco), le dissi: - Qui la fame non arriva.
Lei rialzò il capo. - Non si trova più niente. Né uova né burro, neanche a pagarli. Comprano tutto questa gente che prima mangiavano patate bollite.
- Ne avessimo sempre, - risposi.
L’Elvira andò al fornello, corrugando la fronte. Mi voltava la schiena.
- Comprano tutto le osterie dove si passa la notte a far baldoria.
- E si dorme per terra, - dissi.
- Io non voglio sapere, - sbottò l’Elvira voltandosi. - Ma non è gente come noi.
- Credo bene, - le dissi, - vale molto più di noi.
Si teneva la gola, con gli occhi indignati.
- Se è per le donne e per il vino, chieda a Belbo, - ripresi, - lui va d’accordo come me con questa gente. Non ci sono che i cani per giudicare il prossimo.
- Ma sono...
- Sovversivi, lo so. Meno male. Crede che al mondo non ci stiano che i preti e i fascisti?
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