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X.

Notti dopo, Torino andò in fiamme. Durò piú di un’ora. Ci pareva di avere sul capo i motori e gli scoppi. Caddero bombe anche in collina e nel Po. Un apparecchio mitragliò inferocito una batteria antiaerea — si seppe l’indomani che diversi tedeschi erano morti. — Siamo in mano ai tedeschi, — dicevano tutti, — ci difendono loro.

La sera dopo, altra incursione, piú tremenda. Si sentivano le case crollare, tremare la terra. La gente scappava, tornarono a dormire nei boschi. Le mie donne pregarono fino all’alba, inginocchiate su un tappeto. Scesi a Torino l’indomani tra gli incendi, e dappertutto s’invocava la pace, la fine. I giornali si scambiavano ingiurie. Girava la voce che i fascisti rialzavano il capo, che il Veneto si riempiva di divisioni tedesche, che i nostri soldati avevano ordine di sparare sulla folla. Dalle prigioni, dal confino, sbucavano i detenuti politici. Il papa fece un altro discorso invocando l’amore.

Passò una notte tranquilla, in tensione paurosa (toccò a Milano, questa volta), poi di nuovo una notte di fuoco e di crolli. Le radio nemiche lo ripetevano ogni sera: «Sarà cosí tutte le notti fino all’ultimo. Arrendetevi». Adesso nei caffè, per le strade, si discuteva solamente del modo. La Sicilia era tutta occupata. «Trattiamo, — dicevano i fascisti superstiti, — ma che prima il nemico sgombri il suolo della patria». Altri imprecavano ai tedeschi. Tutti attendevano uno sbarco sotto Roma, sotto Genova.

Rientrando in collina, sentivo quanto fosse precario il rifugio lassú. Il silenzio dei boschi aveva l’aria di un’attesa. Anche il cielo era vuoto. Avrei voluto esser radice, essere verme, e sprofondare


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