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farci una villa e darla a noi. Non vogliono ingombri sul campo di tiro, ecco tutto.
— Ma noi ci siamo, — disse Fonso, — e non è facile levarci di mezzo.
— Non è facile? Basta bruciare le stoppie. Lo stanno facendo.
Disse Nando: — La guerra è un lavoro di talpe. Basta ficcarsi sottoterra.
— E fatelo allora, — gridai. — Nascondetevi e smettetela. Fin che in Italia c’è un tedesco, sarà inutile pensarci.
La Giulia — o un’altra, non ricordo — disse: — È arrabbiato il professore.
Disse Cate: — Chi ti chiede di muoverti?
Tutte le facce mi guardavano. Anche Dino.
Ogni volta giuravo di tacere e ascoltare, di scuotere il capo e ascoltare. Ma quel cauto equilibrio d’ansie, di attese e di futili speranze in cui adesso trascorrevo i giorni, era fatto per me, mi piaceva: avrei voluto che durasse eterno. L’impazienza degli altri poteva distruggerlo. Da tempo ero avvezzo a non muovermi, a lasciare che il mondo impazzisse. Ora, un gesto di Fonso e dei suoi bastava a mettere ogni cosa in forse. Ecco perché mi ci arrabbiavo e discutevo.
— Da quando è caduto il fascismo, — dissi, — non vi si sente piú cantare. Come mai?
— Su, cantiamo, — dissero le ragazze. Si levarono voci — vecchie canzoni di ieri Dino attaccò Bandiera rossa. Ne cantammo una strofa, inquieti, ridendo; ma già la discussione riprendeva. Disse Tono, il gigante: — Quando saremo alle elezioni, ci sarà da lavorare.
Fu in una di quelle sere che la vecchia di Cate, mentre in cortile aspettavamo che finisse un allarme, mi disse la sua. Avevo appena detto a Fonso: — Se gli italiani hanno da prendere sul serio le cose, ce ne vorranno delle bombe — . Disse la vecchia: — Venite a dirlo a chi lavora. Per chi ha la pagnotta e può stare in collina, la guerra è un piacere. Sono la gente come voi che ha portato la guerra — . Lo disse tranquilla, senz’ombra di rancore, come fossi suo figlio.
Lí per lí non patii. — Fossero tutti come lui, — diceva Cate. Io non risposi. — La pelle è la pelle, che storie, — entrò Fonso.
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