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cando la cicca. Era basso, tarchiato, entrava e usciva dalla cantina, soffermandosi a raccogliere un chiodo, a studiare la griglia, a raddrizzare un tralcio di vite sul muretto. A vederlo, pareva impossibile che ci fosse la guerra, che qualcosa contasse piú del chiodo, del muretto, della campagna lavorata. Si chiamava Gregorio. La nonna di Cate, invece, levava sovente nel pomeriggio una voce stridula che pareva una gazza; s’irritava con Dino, coi vicini, con le cose del mondo. In quei giorni che Fonso e Nando e le ragazze passavano la notte a Torino, era quello l’unico segno di presenza alle Fontane, anche a sera quando Cate arrivava. Pareva un luogo abbandonato, senza vita, una parte del bosco. E come succede di un bosco, si poteva soltanto spiarlo, fiutarlo; non viverci o possederlo a fondo.

Quando chiedevo a Dino se disegnava ancora, lui alzava le spalle, e dopo un poco mi portava il quaderno. Allora parlavamo di uccelli, di cavallette, di strati geologici. «Perché, — mi chiedevo, — non posso fargli compagnia come prima, quando nemmeno immaginavo questa faccenda?» Se adesso Dino mi accettava senza molto entusiasmo, era perché gli stavo troppo alle costole, perché mi facevo suo padre. Strana cosa, pensai, coi bambini succede come succede con gli adulti: si disgustano a troppo accudirli. L’amore è una cosa che secca. Ma erano amore le smanie dell’Elvira per me, le mie chiacchiere con Dino e il farmi ragazzo per lui? Esistono amori che non siano egoismo, che non vogliano ridurre l’uomo o la donna al proprio comodo? Cate lasciava che facessi, che prendessi il suo posto accanto a Dino, che girassimo i boschi. Ci dava un’occhiata a sera arrivando, impenetrabile, canzonatoria, e ascoltava tranquilla le vanterie di Dino. A volte pensavo che anche lei ci trovasse il suo comodo. Dino imparava e profittava frequentandomi.

Una cosa che lo esaltava erano i mostri preistorici e la vita dei selvaggi. Gli portai altri libri illustrati, e giocavamo a immaginarci che in quella conca sul sentiero del Pino, tra i muschi e le felci, in mezzo agli equiseti, fosse la tana dei megateri e dei mammut. Lui propendeva per le storie di congiure scientifiche, di macchine infernali, di popolazioni meccaniche; le aveva lette sui suoi album settimanali. A Torino, in cortile, stava tuttora un suo amico di scuola, Cruscotto, che passava le giornate in cantina a ritagliare l’alluminio e la latta, e appendeva dei fili, attrezzava tutto un si-


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