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— Cosa dici? Tu hai la laurea, sei professore. Vorrei saper io le cose che sai.
— Esser qualcuno è un’altra cosa, — dissi piano. — Non te l’immagini nemmeno. Ci vuole fortuna, coraggio, volontà. Soprattutto coraggio. Il coraggio di starsene soli come se gli altri non ci fossero e pensare soltanto alla cosa che fai. Non spaventarsi se la gente se ne infischia. Bisogna aspettare degli anni, bisogna morire. Poi dopo morto, se hai fortuna, diventi qualcuno.
— Sei sempre lo stesso, — bisbigliò Cate. — Per non farle, ti rendi le cose impossibili. Io voglio soltanto che Dino abbia un buon posto nella vita, che non gli tocchi lavorare come un cane e maledirmi.
— Se davvero speri nella rivoluzione, — le dissi, — ti dovrebbe bastare un figliolo operaio.
Cate si offese e s’imbronciò. Poi mi disse: — Vorrei che studiasse e diventasse come te, Corrado. Senza scordarsi di noialtri disgraziati.
Quella notte l’Elvira mi aspettava al cancello. Non mi chiese se avevo già cenato. Mi trattò freddamente, come si tratta uno spensierato che si è messo nei pericoli e ci ha fatto penare. Non mi chiese che cosa avessi fatto a Torino. Disse soltanto che loro mi avevano sempre ben trattato e credevano di avere diritto a un riguardo, a un pensiero. Padrone di andarmene con chiunque, disse. Ma almeno avvertissi.
— Che diritti, — risposi seccato. — Nessuno ha diritti. Abbiamo quello di crepare, di svegliarci bell’e morti. Con quel che succede.
L’Elvira nel buio guardava oltre le mie spalle. Taceva. Mi accorsi con terrore che le guance le brillavano di lacrime.
Allora persi del tutto la pazienza. — Siamo al mondo per caso, dissi. — Padre, madre e figliuoli, tutto viene per caso. Inutile piangere. Si nasce e si muore da soli...
— Basta volere un po’ di bene, — mormorò lei, con quella voce autoritaria.
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