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VIII.

La notte risalii in collina con Cate al braccio e Dino che mi trottava davanti assonnato. Avevamo cenato insieme, al quarto piano nell’alloggio di Fonso, con le sorelle, coi vicini, ridendo, ascoltando la radio, tendendo l’orecchio a ogni sospetto di sommosse o di cortei che salisse dalla strada. La sera estiva brulicante di sentori e di speranze mi diede alla testa. Poi eravamo scesi tutti in un cortile lastricato, nell’ombra — veniva gente, operai, coinquilini, ragazze — e ci fu un uomo, un giovanotto, che si issò sul balcone dell’ammezzato e parlò con calore tutt’altro che ingenuo del grande fatto di quei giorni, e del domani. Pareva un sogno, sentire quelle pubbliche frasi. L’entusiasmo mi prese. «Né propagande né terrore hanno toccato questa gente, — pensai. — L’uomo è migliore di quel che si crede». Poi altri parlarono, discussero a gran voce. Ricomparve il gigante di prima. Incitò alla prudenza. Lo subissarono d’applausi. — È stato in prigione, — mi dissero. — Ha fatto piú scioperi lui... — Che il governo si spieghi, — gli gridavano. — Che lasci parlare noialtri — . Una voce stridula di donna intonò un canto: s’unirono tutti. Pensai che dalla strada le pattuglie ci sentivano e mi misi sul portone di guardia.

Adesso salivamo in silenzio con Cate, tenendoci il braccio come innamorati e tra noi camminava una speranza, un’estiva inquietudine. Avevamo traversato insieme Torino due volte quel giorno, e prima di cena, sullo spiazzo di Po davanti all’ospedale, m’ero accorto che proprio in quei luoghi avevo conosciuto Cate e che di là passavamo per andarcene in barca. La giornata finiva in una sapida freschezza, e tutto, l’aria trasparente, il nitore delle cose, ricordava altre sere, sere ingenue, di pace. Ogni cosa pareva


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