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Mussolini, — disse scattante il bassotto, mordendo la sigaretta, — il cavaliere... L’hai capita? Adesso se ne ricordano.

— Hanno paura dei tedeschi, — disse Fonso.

— Macché. Siamo merli noialtri, — ghignò l’altro. — Sai com’è? L’hanno capita tra loro gerarchi che la storia puzzava, e allora corrono dal re e gli fanno: «Senti. Ci devi mettere a riposo, levarci dalla merda. Tu intanto continui la guerra, gli italiani si sfogano, si fiaccano il collo, e noi domani ritorniamo a darti mano. Ci sei?»

— Lascialo dire, — brontolò il gigante in tuta. — Se non fa l’asino quest’oggi, quando vuoi che lo faccia? Ieri sera l’hai presa la sbornia?

— Quattro ne ha prese, — disse Fonso, divertito.

— E allora basta. Andiamo a casa.

— Vedrai che ritornano, — gridò il mingherlino.

Restai solo con Fonso e il gigante. Camminavamo in mezzo ai cenni e alle voci.

— Però Aurelio ha ragione, — disse Fonso. — Hanno riempito di soldati le caserme.

Il gigante, incuriosito, girò la faccia. — I soldati sono popolo, disse. — Sono popolo armato. Non si sa contro chi spareranno.

— Hanno paura dei tedeschi, — interruppi, — spareranno sui tedeschi.

— Una cosa alla volta, — disse l’altro adagio, — verrà la volta anche per loro. Non adesso.

— Macché, — disse Fonso. — Che sparino subito. È questa la guerra.

Il gigante scuoteva il capo.

— Voi non sapete che cos’è politica, — disse. — Lascia fare ai piú vecchi.

— Vi abbiamo lasciato una volta, — disse Fonso.

Arrivammo davanti alla casa, che le radio cominciavano a gracchiare. Ci soffermammo; si fermarono tutti. — Il bollettino. Silenzio — . Segui la notizia dello stato d’assedio, del buon ordine in tutta Italia, dei cortei di esultanza, della nostra decisione di combattere e farci onore fino all’ultimo sangue.

— Lascia fare a chi sa, — ripeteva il gigante a capo chino.

— È tutta merda, — disse Fonso, — evviva Aurelio.

Dietro alla casa la collina si stendeva nel cielo, seminata di case e di boschi. Mi chiedevo chi la vedesse in quel momento, della


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