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XXXII.

Non ci aveva creduto. Fino alla fine non ci aveva creduto. La vide una volta traversare sul ponte, veniva dalla stazione, aveva indosso una pelliccia grigia e le scarpe felpate, gli occhi allegri dal freddo. Lei l’aveva fermato.

— Come va al Salto? suoni sempre?... Oh Nuto, avevo paura che fossi anche tu in Germania... Dev’essere brutto su di lí... Vi lasciano tranquilli?

A quei tempi traversare Canelli era sempre un azzardo. C’erano le pattuglie, i tedeschi. E una ragazza come Santa non avrebbe parlato in strada con un Nuto, non fosse stata la guerra. Lui quel giorno non era tranquillo, le disse soltanto dei sí e dei no.

Poi l’aveva riveduta al caffè dello Sport, lei stessa ce l’aveva chiamato uscendo sulla porta. Nuto teneva d’occhio le facce che entravano, ma era un mattino tranquillo, una domenica di sole che la gente va a messa.

— Tu m’hai vista quand’ero alta cosí, — diceva Santa, — tu mi credi. C’è della gente cattiva a Canelli. Se potessero mi darebbero fuoco... Non vogliono che una ragazza faccia una vita non da scema. Vorrebbero che facessi anch’io la fine d’Irene, che baciassi la mano che mi dà uno schiaffo. Ma io la mordo la mano che mi dà uno schiaffo... gentetta che non sono nemmeno capaci di fare i mascalzoni...

Santa fumava sigarette che a Canelli non si trovavano, gliene aveva offerte. — Prendine, — aveva detto, — prendile tutte. Siete in tanti a dover fumare, su di lí.

— Vedi com’è, — diceva Santa, — siccome una volta conoscevo qualcuno e ho fatto la matta, anche tu ti voltavi nelle vetrine


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