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que lavorano, — mi dissi, — non è cambiato proprio niente». In quelle strade dove s’era piú penato e sperato, dove al tempo che noi eravamo ragazzi s’era sparso tanto sangue, la giornata passava tranquilla. Gli operai, gli schiacciati, lavoravano come ieri, come sempre. Chi sa, credevano tutto finito.

Aspettando pensavo a Cate, alla logica di quella vita che tornava a riprendermi in un simile momento. Del gusto violento e beffardo che avevo condiviso con Gallo per la dura umanità delle barriere, dell’inutile rabbia con cui m’ero cacciato nel salotto di Anna Maria, non mi restava che vergogna e segreto rossore. Cosí futile era stata tutta quanta l’avventura, che ero ridotto a dirmi «Bravo. L’hai scampata».

Ma l’avevo davvero scampata? C’era la fine della guerra, c’era Dino. Per minaccioso che fosse l’imminente avvenire, il mondo vecchio traballava, e la mia vita era tutta impostata su quel mondo, sul terrore e rancore e disgusto che quel mondo incuteva. Adesso avevo quarant’anni e c’era Cate, c’era Dino. Non contava di chi fosse davvero figlio: contava il fatto che ci fossimo trovati in quell’estate dopo le assurde villanie di una volta, e Cate sapesse per chi e perché vivere, Cate avesse uno scopo, volontà d’indignarsi, un’esistenza tutta piena e tutta sua. Non ero futile e villano anche stavolta, che le giravo intorno tra smarrito e umiliato?

Nel cortile della fabbrica cominciò movimento. Altra gente aspettava come me, si formavano gruppi, qualcuno usciva — uomini validi, ragazze, giovanotti con la giacca sulla spalla. Cominciavano a chiamarsi e parlare forte. Riconobbi i miei uomini. Qui il sospetto sornione che regnava in città in mezzo al disordine e alla festa, era sommerso in ben altra franchezza, in un clamore ingenuo e ardito. Anche i solitari che gettavano occhiate e poi se ne andavano fischiando, avevano nel passo una loro baldanza. Piú di tutti vociavano le ragazze. Si chiedevano e davano notizie, gridavano con gusto cose ancora ieri proibite.

Sotto il sole, scottava. Vidi Fonso fermo in un crocchio. Non mi mossi. Era proprio un ragazzo. Aveva accanto un uomo in tuta, gigantesco, e uno mingherlino. Ridevano. Speravo che Cate o qualcuno degli altri fosse venuto al cancello ma non vidi nessuno.

— Il professore, — gridò Fonso.

Entrai con loro. Discutevano sopra il giornale. — Il cavaliere


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