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XXXI.

Cinto se lo prese in casa Nuto, per fargli fare il falegname e insegnargli a suonare. Restammo d’accordo che, se il ragazzo metteva bene, a suo tempo gli avrei fatto io un posto a Genova. Un’altra cosa da decidere: portarlo in Alessandria all’ospedale, che il dottore gli vedesse la gamba. La moglie di Nuto protestò ch’erano già in troppi nella casa del Salto, tra garzoni e banchi a morsa, e poi non poteva stargli dietro. Le dicemmo che Cinto era giudizioso. Ma io lo presi ancora da parte e gli spiegai di stare attento, qui non era come la strada di Gaminella — davanti alla bottega passavano macchine, autocarri, moto, che andavano e venivano da Canelli — , guardasse sempre prima di traversare.

Cosí Cinto trovò una casa da viverci, e io dovevo ripartire l’indomani per Genova. Passai la mattinata al Salto, e Nuto mi stava dietro e mi diceva: — Allora te ne vai. Non ritorni per la vendemmia?

— Magari m’imbarco, — gli dissi, — ritorno per la festa un altr’anno.

Nuto allungava il labbro, come fa lui. — Sei stato poco, — mi diceva, — non abbiamo neanche parlato.

Io ridevo. — Ti ho perfino trovato un altro figlio...

Levati da tavola, Nuto si decise. Pigliò al volo la giacca e guardò in su. — Andiamo attraverso, — borbottò, — questi sono i tuoi paesi.

Traversammo l’alberata, la passerella di Belbo, e riuscimmo sulla strada di Gaminella in mezzo alle gaggie.

— Non guardiamo la casa? — dissi. — Anche il Valino era un cristiano.


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