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l’uomo che sapeva il francese e l’inglese e veniva da Milano, alto e grigio, un signore — si diceva che comprasse delle terre. Silvia s’incontrava con lui in una villa di conoscenti e ci facevano le merende. Quella volta ci fecero cena, e lei uscí l’indomani mattina. Il ragioniere lo seppe e voleva ammazzare qualcuno, ma quel Lugli andò a trovarlo, gli parlò come a un ragazzo e la cosa finí lí.

Quest’uomo che aveva forse cinquant’anni e dei figli grandi, io non lo vidi mai che da lontano, ma per Silvia fu peggio che Matteo di Crevalcuore. Sia Matteo che Arturo e tutti gli altri erano gente che capivo, giovanotti cresciuti là intorno, poco di buono magari, ma dei nostri, che bevevano, ridevano e parlavano come noi. Ma questo tale di Milano, questo Lugli, nessuno sapeva quel che facesse a Canelli. Dava dei pranzi alla Croce Bianca, era in buona col podestà e con la Casa del fascio, visitava gli stabilimenti. Doveva aver promesso a Silvia di portarla a Milano, chi sa dove, lontano dalla Mora e dai bricchi. Silvia aveva perso la testa, lo aspettava al caffè dello Sport, giravano sull’automobile del segretario per le ville, per i castelli, fino in Acqui. Credo che Lugli fosse per lei quello che lei e sua sorella sarebbero potute essere per me — quello che poi fu per me Genova o l’America. Ne sapevo già abbastanza a quei tempi per figurarmeli insieme e immaginare quel che si dicevano — come lui le parlava di Milano, dei teatri, di ricconi e di corse, e come lei stava a sentire con gli occhi pronti, arditi, fingendo di conoscere tutto. Questo Lugli era sempre vestito come il modello di un sarto, portava una pipetta in bocca, aveva i denti e un anello d’oro. Una volta Silvia disse a Irene — e l’Emilia sentí ch’era stato in Inghilterra e doveva tornarci.

Ma venne il giorno che il sor Matteo piantò una sfuriata alla moglie e alle figlie. Gridò che era stufo di musi lunghi e di ore piccole, stufo dei mosconi là intorno, di non sapere mai la sera a chi dir grazie la mattina, d’incontrare dei conoscenti che gli tiravano satire. Diede la colpa alla matrigna, ai fannulloni, alla razza puttana delle donne. Disse che almeno la sua Santa la voleva allevare lui, che si sposassero pure se qualcuno le prendeva ma che gli uscissero dai piedi, tornassero in Alba. Pover uomo, era vecchio e non sapeva piú dominarsi, né comandare. Se n’era accorto anche Lanzone, sulle rese dei conti. Ce n’eravamo accorti tutti. La conclusione della sfuriata fu che Irene andò a letto con gli occhi rossi e la signora Elvira abbracciò Santina dicendole di non ascoltare


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