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fumo e di carne. Gli dicevano che l’avrebbe trovato, che anche i ferri delle zappe e delle vanghe, quando la brace fosse spenta, si sarebbero potuti riprendere. Noi portammo cinto al Morone, era quasi mattino; gli altri dovevano cercare nella cenere quel che restava delle donne.
Nel cortile del Morone nessuno dormiva. Era aperto e acceso in cucina, le donne ci offrirono da bere; gli uomini si sedettero a colazione. Faceva fresco, quasi freddo. Io ero stufo di discussioni e di parole. Tutti dicevano le medesime cose. Restai con Nuto a passeggiare nel cortile, sotto le ultime stelle, e vedevamo di lassú nell’aria fredda, quasi viola, i boschi d’albere nella piana, il luccichio dell’acqua. Me l’ero dimenticato che l’alba è cosí.
Nuto passeggiava aggobbito, con gli occhi a terra. Gli dissi subito che a Cinto dovevamo pensar noi, che tanto valeva l’avessimo fatto già prima. Lui levò gli occhi gonfi e mi guardò — mi parve mezzo insonnolito.
Il giorno dopo ci fu da farsi brutto sangue. Sentii dire in paese che la madama era furente per la sua proprietà, che visto che Cinto era il solo vivo della famiglia, pretendeva che Cinto la risarcisse, pagasse, lo mettessero dentro. Si seppe ch’era andata a consigliarsi dal notaio e che il notaio l’aveva dovuta ragionare per un’ora. Poi era corsa anche dal prete.
Il prete la fece piú bella. Siccome il Valino era morto in peccato mortale, non volle saperne di benedirlo in chiesa. Lasciarono la sua cassa fuori sui gradini, mentre il prete dentro borbottava su quelle quattro ossa nere delle donne, chiuse in un sacco. Tutto si fece verso sera, di nascosto. Le vecchie del Morone, col velo in testa, andarono coi morti al camposanto raccogliendo per strada margherite e trifoglio. Il prete non ci venne perché — ripensandoci — anche la Rosina era vissuta in peccato mortale. Ma questo lo disse soltanto la sarta, una vecchia lingua.
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