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XXVII.
Nuto lo prese per le spalle e lo alzò su come un capretto.
— Ha ammazzato Rosina e la nonna?
Cinto tremava e non poteva parlare.
— Le ha ammazzate? — e lo scrollò.
— Lascialo stare, — dissi a Nuto, — è mezzo morto. Perché non andiamo a vedere?
Allora Cinto si buttò sulle mie gambe e non voleva saperne.
— Sta’ su, — gli dissi, — chi venivi a cercare?
Veniva da me, non voleva tornare nella vigna. Era corso a chiamare il Morone e quelli del Piola, li aveva svegliati tutti, altri correvano già dalla collina, aveva gridato che spegnessero il fuoco, ma nella vigna non voleva tornare, aveva perduto il coltello.
— Noi non andiamo nella vigna, — gli dissi. — Ci fermiamo sulla strada, e Nuto va su lui. Perché hai paura? Se è vero che sono corsi dalle cascine, a quest’ora è tutto spento...
C’incamminammo tenendolo per mano. La collina di Gaminella non si vede dalla lea, è nascosta da uno sperone. Ma appena si lascia la strada maestra e si scantona sul versante che strapiomba nel Belbo, un incendio si dovrebbe vederlo tra le piante. Non vedemmo nulla, se non la nebbia della luna.
Nuto, senza parlare, diede uno strattone al braccio di Cinto, che incespicò. Andammo avanti, quasi correndo. Sotto le canne si capí che qualcosa era successo. Di lassú si sentiva vociare e dar dei colpi come abbattessero un albero, e nel fresco della notte una nuvola di fumo puzzolente scendeva sulla strada.
Cinto non fece resistenza, venne su affrettando il passo col nostro, stringendomi piú forte le dita. Gente andava e veniva e si
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