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militari... Allora c’erano i fascisti e queste cose non si potevano dire... Ma c’erano anche gli altri...

Non gliel’avevo mai raccontata per non tirarlo su quel discorso che tanto era inutile e adesso dopo vent’anni e tante cose successe non sapevo nemmeno piú io che cosa credere, ma a Genova quell’inverno ci avevo creduto e quante notti avevamo passato nella serra della villa a discutere con Guido, con Remo, con Cerreti e tutti gli altri. Poi Teresa s’era spaventata, non aveva piú voluto lasciarci entrare e allora le avevo detto che lei continuasse pure a far la serva, la sfruttata, se lo meritava, noi volevamo tener duro e resistere. Cosí avevamo continuato a lavorare in caserma, nelle bettole e, una volta congedati, nei cantieri dove trovavamo lavoro e nelle scuole tecniche serali. Teresa adesso mi ascoltava paziente e mi diceva che facevo bene a studiare, a volermi portare avanti, e mi dava da mangiare in cucina. Su quel discorso non tornava piú. Ma una notte venne Cerreti a avvertirmi che Guido e Remo erano stati arrestati, e cercavano gli altri. Allora Teresa, senza farmi un rimprovero, parlò lei con qualcuno — cognato, passato padrone, non so — e in due giorni mi aveva trovato un posto di fatica su un bastimento che andava in America. Cosí era stato, dissi a Nuto.

— Vedi com’è, — disse lui. — Alle volte basta una parola sentita quando si è ragazzi, anche da un vecchio, da un povero meschino come mio padre, per aprirti gli occhi... Sono contento che non pensavi soltanto a far soldi... E quei compagni, di che morte sono morti?

Andavamo cosí, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro destino. Io tendevo l’orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la martinicca di un carro — un rumore che sulle strade d’America non si sente piú da un pezzo. E pensavo a Genova, agli uffici, a che cosa sarebbe stata la mia vita se quel mattino nel cantiere di Remo avessero trovato anche me. Tra pochi giorni tornavo in viale Corsica. Per quest’estate era finita.

Qualcuno correva sullo stradone nella polvere, sembrava un cane. Vidi ch’era un ragazzo: zoppicava e ci correva incontro. Mentre capivo ch’era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e mugolava come un cane.

— Cosa c’è?

Lí per lí non gli credemmo. Diceva che suo padre aveva bruciato la casa. — Proprio lui, figurarsi, — disse Nuto.


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