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XXVI.

Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perché. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c’è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina — e un Nuto, un Canelli, una stazione, c’è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna — , e nell’estate battono il grano, vendemmiano, nell’inverno vanno a caccia, c’è un terrazzo — tutto succede come a noi. Dev’essere per forza cosí. I ragazzi, le donne, il mondo non sono mica cambiati. Non portano piú il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, dànno il grano all’ammasso, le ragazze fumano — eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, piú ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti cosí in una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio cosí, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci. In America si faceva cosí — quando eri stufo di una cosa, di un lavoro, di un posto cambiavi. Laggiú perfino dei paesi intieri con l’osteria, il municipio e i negozi adesso sono vuoti, come un camposanto.

Nuto non parla volentieri della Mora, ma mi chiese diverse volte se non avevo piú visto nessuno. Lui pensava a quei ragazzi


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