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— Ammazzare. Levargli la voglia, — gridava Fonso. — C’è bisogno di noi.

Se ne andarono. Dissero che tornavano a notte, a pace fatta. Restai lassú non perché avessi paura di qualche pallottola (era peggio un allarme), ma perché prevedevo entusiasmi, cortei, discussioni sfegatate. Egle mi volle suo accompagnatore a un’altra villa, dove andava a gridare la notizia e le voci. Passammo per una stradina fra gli alberi, che ci portò dietro la costa in un piccolo mondo ignorato di rive e di uccelli. «Hanno invaso le carceri». «C’è lo stato d’assedio». «Tutti i fascisti si nascondono». Torino era a due passi, remota. — Forse domani troveremo in questi boschi un gerarca fuggiasco, — dissi.

— Che spavento, — disse Egle.

— Mangiato dai vermi e dalle formiche.

— Se lo meritano, — disse Egle.

— Se non fosse per loro, — le dissi, — non saremmo vissuti tranquilli in collina per tanti anni.

Eravamo arrivati e già chiamava l’amica. Io le dissi che dovevo scappare. Fece una smorfia di dispetto.

— La signora Elvira, — tagliai, — non approva che andiamo a passeggio nei boschi.

Mi guardò con gli occhietti. Mi tese la mano come una donna, e scoppiò a ridere.

— Maligno, — disse.

L’amica venne alla finestra, una ragazza con le trecce. In distanza le sentii festeggiarsi. Avevo già preso la strada delle Fontane. M’accorsi che stavolta ero solo. «Belbo è scappato a Torino anche lui». Immaginavo l’osteria silenziosa, Dino nel prato, le due donne in cucina. «Adesso che la guerra finisce, forse Cate mi dirà la verità», pensai salendo.

Non fu necessario arrivare lassú. Cate scendeva sotto il sole, vestita a colori, saltellando.

— Come sei giovane, — le dissi.

— Sono contenta, — e si attaccò al mio braccio senza fermarsi, come ballasse. — Sono cosí contenta. Non vieni a Torino?

Si fermò e disse brusca: — Tu sei capace di non saper niente. Magari stanotte dormivi. Nessuno ti ha visto.

— So tutto, — le dissi. — Sono contento come te. Ma lo sai che la guerra continua? Cominciano ora i pasticci.


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