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XXIV.

La piccola Santa, che aveva allora tre o quattro anni, era una cosa da vedere. Veniva su bionda come Irene, con gli occhi neri di Silvia, ma quando si mordeva le dita insieme con la mela e per dispetto strappava i fiori, o voleva a tutti i costi che la mettessimo sul cavallo e ci dava calci, noi dicevamo ch’era il sangue di sua madre. Il sor Matteo e le altre due facevano le cose piú con calma e non erano cosí prepotenti. Irene soprattutto era calma, cosí alta, vestita di bianco, e con nessuno s’irritava mai. Non ne aveva bisogno, perché perfino all’Emilia chiedeva sempre le cose per favore, e a noialtri, poi, guardandoci mentre ci parlava, guardandoci negli occhi. Anche Silvia dava di queste occhiate, ma erano già piú calde, maliziose. L’ultimo anno che stetti alla Mora io prendevo cinquanta lire e alla festa mi mettevo la cravatta, ma capivo ch’ero arrivato troppo tardi, e non potevo piú far niente.

Ma neanche in quegli ultimi anni avrei osato di pensare a Irene. E Nuto non ci pensava perché ormai suonava il clarino dappertutto e aveva la ragazza a Canelli. Di Irene si diceva che parlasse con uno di Canelli, andavano sempre a Canelli, comperavano roba nei negozi, regalavano alla Emilia i vestiti smessi. Ma anche il Nido s’era riaperto, ci fu una cena a cui la signora e le figlie andarono, e quel giorno venne la sarta da Canelli per vestirle. Io le condussi in biroccio fino alla svolta della salita e sentii che parlavano dei palazzi di Genova. Mi dissero di tornare a riprenderle a mezzanotte, di entrare nel cortile del Nido — col buio gli invitati non avrebbero visto che i cuscini del biroccio erano scrostati. Mi dissero anche di drizzarmi la cravatta per non sfigurare.

Ma quando a mezzanotte entrai fra le altre carrozze in quel


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