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chia. Andarono sopra e sentii che parlavano e si scaldavano e ridevano.

Da quella volta della gita a Agliano, il figlio del medico passava sovente nella strada sotto il terrazzo, e salutava le ragazze e si parlavano cosí. Poi i pomeriggi d’inverno lo fecero entrare e lui, che girava con degli stivali da cacciatore, si batteva il bastoncino sullo stivale, si guardava intorno, strappava un fiore o un rametto nel giardino — meglio, una foglia rossa di vite vergine — e saliva svelto la scala dietro i vetri. Di sopra era acceso un bel fuoco nel caminetto, e si sentiva suonare il piano, ridere, fino a sera. Qualche volta quell’Arturo si fermava a pranzo. L’Emilia diceva che gli davano il tè coi biscotti, glielo dava sempre Silvia, ma lui il filo lo faceva a Irene. Irene, cosí bionda e buona, si metteva a suonare il piano per non parlargli. Silvia stava a pancia molle sul sofà, e dicevano le loro sciocchezze. Poi s’apriva la porta, la signora Elvira cacciava dentro la piccola Santina di corsa, e Arturo si alzava in piedi, salutava seccato, la signora diceva: — Abbiamo ancora una signorina gelosa, che vuol essere presentata — . Poi arrivava il sor Matteo che ce l’aveva su con lui, ma la signora Elvira invece gliele faceva buone e trovava che per Irene andava benissimo anche Arturo. Chi non lo voleva era Irene, perché diceva ch’era un uomo falso — che la musica non l’ascoltava neanche, che a tavola non sapeva stare, e faceva giocare Santina soltanto per ingraziarsi la madre. Silvia invece lo difendeva, diventava rossa, e alzavano la voce; un bel momento Irene, fredda, si dominava e diceva: — Io te lo lascio. Perché non lo prendi tu?

— Buttatelo fuori di casa, — diceva il sor Matteo, — un uomo che gioca e che non ha un pezzo di terra non è un uomo.

Verso la fine dell’inverno quest’Arturo cominciò a portarsi dietro un impiegato della stazione, un suo amico lungo lungo che si attaccò a Irene anche lui, e che parlava soltanto in italiano, ma s’intendeva di musica. Questo spilungone si mise a suonare a quattro mani con Irene e, visto che loro facevano coppia cosí, Arturo e Silvia s’abbracciavano per ballare e ridevano insieme e adesso, quando Santina arrivava, toccava all’amico farla saltare e riacchiapparla al volo.

— Se non fosse che è toscano, — diceva il sor Matteo, — direi ch’è un ignorante. L’aria ce l’ha... C’era un toscano con noi a Tripoli...


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