Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
XXIII.
Poi veniva la stagione che in mezzo alle albere di Belbo e sui pianori dei bricchi rintronavano fucilate già di buon’ora e Cirino cominciava a dire che aveva visto la lepre scappare in un solco. Sono i giorni piú belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa piú, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.
Noialtri andavamo per funghi là intorno; Irene e Silvia combinarono con le loro amiche di Canelli e i giovanotti di andarci in biroccino fino a Agliano. Partirono una mattina che sui prati c’era ancora la nebbia; gli attaccai io il cavallo, dovevano trovarsi con gli altri sulla piazza di Canelli. Prese la frusta il figlio del medico della Stazione, quello che al tirasegno faceva sempre centro e giocava alle carte dalla sera al mattino. Quel giorno venne un grosso temporale, lampi e fulmini come d’agosto. Cirino e la Serafina dicevano ch’era meglio la grandine adesso sui funghi e su chi li cercava che non sul raccolto quindici giorni prima. Non smise di piovere a diluvio neanche nella notte. Il sor Matteo venne a svegliarci con la lanterna e il mantello sulla faccia, ci disse di stare attenti se sentivamo il biroccio arrivare, non era tranquillo. Le finestre di sopra erano accese; l’Emilia corse su e giú a fare il caffè; la piccola strillava perché non l’avevano portata a funghi anche lei.
Il biroccio tornò l’indomani col figlio del medico che menava la frusta e gridando «Viva l’acqua d’Agliano» saltò a terra senza toccare il predellino. Poi aiutò le due ragazze a scendere; stavano infreddolite con un fazzoletto in testa e il cestino vuoto sulle ginoc-
469 |