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tutto — , eran venute anche loro a prendere il fresco, a sentir cantare le ragazze. E poi tra noi, nella cucina, in mezzo ai filari, ne avevo sentite dir tante su di loro, che suonavano il piano, che leggevano i libri, che ricamavano i cuscini, che in chiesa avevano la placca sul banco. Ebbene, in quella vendemmia, nei giorni che noialtri preparavamo cavagni e bigonce e pulivamo la cantina e anche il sor Matteo girava le vigne, in quei giorni si sentí dall’Emilia che tutta la casa era in rivoluzione, che Silvia sbatteva le porte e Irene si sedeva a tavola con gli occhi rossi e non mangiava. Io non capivo che cosa potessero avere che non fosse la vendemmia e l’allegria del raccolto — e pensare che tutto si faceva per loro, per riempire le cantine e le tasche del sor Matteo ch’era roba loro. L’Emilia ce lo disse una sera, seduti sul trave. La questione del Nido.

Era successo che la vecchia — la contessa di Genova — , tornata da quindici giorni al Nido con nuore e nipoti dai bagni di mare, aveva fatto degli inviti a Canelli e alla Stazione per una festa sotto i platani — e della Mora, di loro due, della signora Elvira, si era dimenticata. Dimenticata o che l’avesse fatto apposta? Le tre donne non lasciavano piú pace al sor Matteo. L’Emilia diceva che in quella casa la meno incagnita era adesso Santina. — Non ho mica ammazzato nessuno, — diceva l’Emilia. — Una risponde, l’altra salta, l’altra sbatte le porte. Se gli prude, si grattino.

Poi venne vendemmia e non ci pensai piú. Ma bastò quel fatto per aprirmi gli occhi. Anche Irene e Silvia erano gente come noi che maltrattata diventava cattiva, s’offendevano e ci soffrivano, desideravano delle cose che non avevano. Non tutti i signori valevano allo stesso modo, c’era qualcuno piú importante, piú ricco, che nemmeno invitava le mie padrone. E allora cominciai a chiedermi che cosa dovevano essere le stanze e il giardino del Nido, di quell’antica palazzina, perché Irene e Silvia morissero d’andarci e non potessero. Si sapeva soltanto quel che dicevano Tommasino e certi servitori, perché tutto quel fianco della collina era cintato e una riva lo separava dalle nostre vigne, dove nemmeno i cacciatori potevano entrare — c’era il cartello. E alzando la testa dallo stradone sotto il Nido, si vedeva tutto un fitto di canne bizzarre che si chiamavano bambú. Tommasino diceva ch’era un parco, che intorno alla casa c’era tanta ghiaietta, piú minuta e bianca di quella che il cantoniere buttava a primavera sullo stradone. Poi i beni del Nido andavano su per la collina dietro, vigne e grano, grano e vi-


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