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XXII.

Di donne ne ho conosciute andando per il mondo, di bionde e di brune — le ho cercate, ci ho speso dietro molti soldi; adesso che non sono piú giovane mi cercano loro, ma non importa — e ho capito che le figlie del sor Matteo non erano poi le piú belle — forse Santina, ma non l’ho veduta grande — , avevano la bellezza della dalia, della rosa di Spagna, di quei fiori che crescono nei giardini sotto le piante da frutta. Ho anche capito che non erano in gamba, che col loro pianoforte, coi romanzi, col tè, coi parasoli, non sapevano farsi una vita, esser vere signore, dominare un uomo e una casa. Ci sono molte contadine in questa valle che sanno meglio dominarsi, e comandare. Irene e Silvia non erano piú contadine, e non ancora vere signore. Ci stavan male, poverette — ci sono morte.

Io capii questa loro debolezza già al tempo di una delle prime vendemmie — me ne accorsi, via, anche se non capivo ancor bene. Per tutta l’estate, dal cortile e dai beni era bastato levar gli occhi e vedere il terrazzo, la vetrata, i coppi, per ricordarsi che le padrone eran loro, loro e la matrigna e la piccola, e che perfino il sor Matteo non poteva entrare nella stanza senza pulirsi i piedi sul tappeto. Poi capitava di sentirle chiamarsi lassú, capitava di attaccare il cavallo per loro, di vederle uscire sulla porta a vetri e andarsene a spasso col parasole, cosí ben vestite che l’Emilia non poteva neanche criticarle. Certe mattine una di loro scendeva in cortile, passava in mezzo alle zappe, alle carrette, alle bestie, e veniva in giardino a tagliare le rose. E qualche volta anche loro uscivano nei beni, sui sentieri, in scarpette, parlavano con la Serafina, col massaro, avevano paura dei manzi, portavano un bel cestino e raccoglievano l’uva luglienga. Una sera, dopo che avevamo ammucchiato i covoni del grano — la sera di San Giovanni, c’erano i falò dapper-


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