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VII.

L’indomani vennero le notizie. Fin dall’alba strepitarono le radio dalle ville vicine: l’Egle ci chiamò dal cortile; la gente scendeva in città parlando forte. L’Elvira bussò alla mia camera, e mi gridò attraverso la porta che la guerra era finita. Allora entrò dentro e, senza guardarmi ché mi vestivo, mi raccontò, rossa in faccia, che Mussolini era stato rovesciato. Scesi da basso, trovai Egle, la madre, ascoltammo la radio — stavolta anche Londra — non ebbi piú dubbi, la notizia era vera. La madre disse: — Ma è finita la guerra?

— Rimincia adesso, — dissi incredulo.

Capivo adesso i clamori notturni. Il fratello dell’Egle era corso a Torino. Tutti correvano a Torino. Dalle ville sbucavano facce e discorsi. Cominciò quella ridda d’incontri, di parole, di gesti, d’incredibili speranze, che non doveva piú cessare se non nel terrore e nel sangue. Gli occhi di tutti erano accesi, anche quelli preoccupati. D’or innanzi anche la solitudine, anche i boschi, avrebbero avuto un diverso sapore. Me ne accorsi a una semplice occhiata che gettai tra le piante. Avrei voluto saper tutto, aver già letto i giornali, per potermi allontanare fra i tronchi e contemplare il nuovo cielo.

Con un coro di grida e di richiami si fermarono al cancello Fonso, Nando e le ragazze. — C’è da fare, — gridava Nando, — i fascisti resistono. Venite con noi a Torino.

— La guerra continua, — disse Fonso. — Ieri notte vi abbiamo aspettato.

— Sembra che andiate a far merenda, — risposi. Scherzavamo cosí. Le ragazze dissero: — Andiamo.


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