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XXI.

Qualche anno dopo, a Genova dov’ero soldato, avevo trovato una ragazza che somigliava a Silvia, bruna come lei, piú grassottella e furba, con gli anni che Irene e Silvia avevano quand’ero entrato alla Mora. Io facevo l’attendente del mio colonnello che aveva una villetta sul mare e mi aveva messo a tenergli il giardino. Pulivo il giardino, accendevo le stufe, scaldavo l’acqua del bagno, giravo in cucina. Teresa era la cameriera e mi canzonava per le parole che dicevo. Proprio per questo avevo fatto l’attendente, per non avere sempre intorno i sergenti che mi pigliassero in giro quando parlavo. Io la guardavo dritto in faccia — ho sempre fatto cosí — non rispondevo e la guardavo. Ma stavo attento a quel che diceva la gente, parlavo poco e tutti i giorni imparavo qualcosa.

Teresa rideva e mi chiedeva se non avevo una ragazza che mi lavasse le camicie. — Non a Genova, — dissi.

Allora voleva sapere se quando andavo in licenza al paese mi portavo il fagotto.

— Io non ci torno al paese, — dissi. — Voglio stare qui a Genova.

— E la ragazza?

— Che cosa importa, — dissi, — ce ne sono anche a Genova.

Lei rideva e voleva sapere chi, per esempio. Allora ridevo io e le dicevo «non si sa».

Quando divenne la mia ragazza e di notte salivo a trovarla nella sua cuccia e facevamo l’amore, lei mi chiedeva sempre che cosa volevo fare a Genova senza un mestiere, e perché non volevo tornare a casa. Lo diceva metà per ridere e metà sul serio. «Perché qui ci sei tu», potevo dirle, ma era inutile, stavamo già abbracciati nel letto. Oppure dirle che anche Genova non era abbastanza, che


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