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Nuto aveva detto a Irene che suonava come un’artista e che tutto il giorno lui sarebbe stato a ascoltare. E Irene allora l’aveva chiamato sul terrazzo (anch’io c’ero andato con lui) e a vetrata aperta aveva suonato dei pezzi difficili ma proprio belli, che riempivano la casa e si dovevano sentire fin nella vigna bianca sulla strada. Mi piaceva, accidenti. Nuto ascoltava con le labbra in fuori come avesse imboccato il clarino, e io vedevo per la vetrata i fiori nella stanza, gli specchi, la schiena dritta d’Irene e le braccia che facevano sforzo, la testa bionda sul foglio. E vedevo la collina, le vigne, le rive — capivo che quella musica non era la musica che suonano le bande, parlava d’altro, non era fatta per Gaminella né per le albere di Belbo né per noi. Ma si vedeva anche, in distanza, sul profilo del Salto verso Canelli, la palazzina del Nido, rossa in mezzo ai suoi platani secchi. E con la palazzina, coi signori di Canelli, la musica d’Irene ci stava, era fatta per loro.

— No! — gridò a un tratto Nuto, — sbagliato! — Irene s’era già ripresa e ributtata a suonare, ma chinò la testa e guardò lui un attimo, quasi rossa, ridendo. Poi Nuto entrò nella stanza, e le voltava i fogli e discutevano e Irene suonò ancora. Io restai sul terrazzo e guardavo sempre il Nido, e Canelli.

Quelle due figlie del sor Matteo non erano per me, e nemmeno per Nuto. Erano ricche, troppo belle, alte. Loro compagnia erano ufficiali, signori, geometri, giovanotti cresciuti. La sera tra noi, tra l’Emilia, Cirino, la Serafina, c’era sempre qualcuno che sapeva con chi parlava adesso Silvia, a chi andavano le lettere che Irene scriveva, chi le aveva accompagnate la sera prima. E si diceva che la matrigna non voleva sposarle, non voleva che andassero via portandosi le cascine, cercava di far grossa la dote per la sua Santina. — Sí sí, valle a tenere, — diceva il massaro, — due ragazze cosí.

Io stavo zitto, e certi giorni d’estate, seduto a Belbo, pensavo a Silvia. A Irene, cosí bionda, non osavo pensare. Ma un giorno che Irene era venuta a far giocare Santina nella sabbia e non c’era nessuno, le vidi correre e fermarsi all’acqua. Stavo nascosto dietro un sambuco. La Santina gridava mostrando qualcosa sull’altra riva. E allora Irene aveva posato il libro, s’era chinata, tolte le scarpe e le calze, e cosí bionda, con le gambe bianche, sollevandosi la gonna al ginocchio, era entrata nell’acqua. Traversò adagio, toccando prima col piede. Poi gridando a Santina di non muoversi, aveva raccolto dei fiori gialli. Me li ricordo come fosse ieri.


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