Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/464


e indovinare la carta, di farla uscire dal mazzo da sola, di cavarla dall’orecchio del coniglio. Ma quando entrava al mattino e mi trovava nell’aia al sole, rompeva in due la sigaretta e accendevamo; poi diceva: — E andiamo a vedere sui coppi — . Sui coppi voleva dire nella torretta della piccionaia, una soffitta che ci si saliva per la scala grande, sopra il ripiano dei padroni, e si stava chinati. Lassú c’era una cassa, tante molle rotte, trabiccoli e mucchi di crine. Un finestrino rotondo, che guardava la collina del Salto, mi sembrava la finestra di Gaminella. Nuto rovistava in quella cassa — c’era un carico di libri stracciati, di vecchi fogli color ruggine, quaderni della spesa, quadri rotti. Lui faceva passare quei libri, li sbatteva per levargli la muffa, ma a toccarli per un po’ le mani ghiacciavano. Era roba dei nonni, del padre del sor Matteo che aveva studiato in Alba. Ce n’era di scritti in latino come il libro da messa, di quelli con dei mori e delle bestie, e cosí avevo conosciuto l’elefante, il leone, la balena. Qualcuno Nuto se l’era preso e portato a casa sotto la maglia, «tanto, — diceva, — non li adopera nessuno». — Cosa ne fai? — gli avevo detto, — non comprate già il giornale?

— Sono libri, — disse lui, — leggici dentro fin che puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.

Passando sul ripiano della scala si sentiva Irene suonare; certe mattine di bel sole era aperta la vetrata, e la voce del piano usciva sul terrazzo in mezzo ai tigli. A me faceva sempre effetto che un mobile cosí grosso, nero, con una voce che i vetri tremavano, lo suonasse lei sola, con quelle lunghe mani bianche da signorina. Ma suonava e, a detta di Nuto, anche bene. L’aveva studiato in Alba da bambina. Chi invece buttava le mani sul piano solo per chiasso e cantava e poi smetteva malamente, era Silvia. Silvia era piú giovane di un anno o due, e certe volte faceva ancora le scale di corsa — quell’anno andava in bicicletta e il figlio del capostazione le aveva tenuto il sellino.

Quando sentivo il pianoforte, io a volte mi guardavo le mani, e capivo che tra me e i signori, tra me e le donne, ce ne correva. Ancora adesso che da quasi vent’anni non lavoro piú di forza e scrivo il mio nome come non avrei mai creduto, se mi guardo le mani capisco che non sono un signore e che tutti si possono accorgere che ho tenuto la zappa. Ma ho imparato che le donne non ci fan caso neanche loro.


460