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XX.

Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagione, e ogni stagione aveva la sua usanza e il suo gioco, secondo i lavori e i raccolti, e la pioggia o il sereno. L’inverno si rientrava in cucina con gli zoccoli pesanti di terra, le mani scorticate e la spalla rotta dall’aratro, ma poi, voltate quelle stoppie, era finita, e cadeva la neve. Si passavano tante ore a mangiar le castagne, a vegliare, a girare le stalle, che sembrava fosse sempre domenica. Mi ricordo l’ultimo lavoro dell’inverno e il primo dopo la merla — quei mucchi neri, bagnati, di foglie e di meligacce che accendevamo e che fumavano nei campi e sapevano già di notte e di veglia, o promettevano per l’indomani il bel tempo.

L’inverno era la stagione di Nuto. Adesso ch’era giovanotto e suonava il clarino, d’estate andava per i bricchi o suonava alla Stazione, soltanto d’inverno era sempre là intorno, a casa sua, alla Mora, nei cortili. Arrivava con quel berretto da ciclista e la maglia grigioverde e raccontava le sue storie. Che avevano inventato una macchina per contare le pere sull’albero, che a Canelli di notte dei ladri venuti da fuori avevano rubato il pisciatoio, che un tale a Calosso prima d’uscire metteva ai figli la museruola perché non mordessero. Sapeva le storie di tutti. Sapeva che a Cassinasco c’era un uomo che, venduta l’uva, stendeva i biglietti da cento su un canniccio e li teneva un’ora al sole la mattina, perché non patissero. Sapeva di un altro, ai Cumini, che aveva un’ernia come una zucca e un bel giorno aveva detto alla moglie di provare a mungerlo anche lui. Sapeva la storia dei due che avevano mangiato il caprone, e poi uno saltava e bramiva e l’altro dava cornate. Raccontava di spose, di matrimoni scombinati, di cascine col morto in cantina.

Dall’autunno a gennaio, bambini si gioca a biglie, e grandi a carte. Nuto sapeva tutti i giochi ma preferiva quello di nascondere


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