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XVIII.
Ma lavoravo la mia parte e adesso Cirino qualche volta stava a sentire quel che dicevo di un fondo e mi dava ragione. Fu lui che parlò al sor Matteo e gli disse che doveva aggiustarmi; se volevano tenermi sui beni che stessi dietro al raccolto e non scappassi per nidi coi ragazzi, bisognava mettermi a giornata. Adesso zappavo, davo lo zolfo, conoscevo le bestie, aravo. Ero capace di uno sforzo. Per mio conto avevo imparato a innestare, e l’albicocco che c’è ancora nel giardino l’ho inserito io sulle prugne. Il sor Matteo mi chiamò un giorno sul terrazzo, c’era anche Silvia e la signora, e mi chiese che fine aveva fatta il mio Padrino. Silvia stava seduta sullo sdraio e guardava la punta dei tigli; la signora faceva la maglia. Silvia era nera di capelli, vestita di rosso, meno alta d’Irene, ma tutt’e due figuravano piú della matrigna. Avevano almeno vent’anni. Quando passavano col parasole, io dalla vigna le guardavo come si guarda due pesche troppo alte sul ramo. Quando venivano a vendemmiare con noi, me ne scappavo nel filare dell’Emilia e di là fischiavo per mio conto.
Dissi che Padrino non l’avevo piú visto, e chiesi perché m’aveva chiamato. Mi seccava di avere i calzoni da verderame e anche gli spruzzi sulla faccia: non mi ero aspettato di trovarci le donne. A pensarci adesso, è chiaro che il sor Matteo l’ha fatto apposta, per confondermi, ma in quel momento per darmi coraggio pensai soltanto a una cosa che l’Emilia ci aveva detto di Silvia: «Per quella lí. Dorme senza la camicia».
— Lavori tanto, — mi disse quel giorno il sor Matteo, — e hai lasciato che il Padrino sprecasse la vigna. Non ce n’hai di puntiglio?
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