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che piangeva giorno e notte nel cortile. E una sera, ecco che passa il treno di Canelli dietro le albere, e il cane si mette a abbaiare frenetico, e la madre capí subito che c’era sopra Matteo che tornava. Cose vecchie — la Mora a quei tempi non aveva che il rustico, le figlie non erano ancor nate, e il sor Matteo era sempre a Canelli, sempre in giro sul biroccio, sempre a caccia. Scavezzacollo, ma alla mano. Trattava gli affari ridendo e cenando. Ancora adesso, la mattina si mangiava un peperone e sopra ci beveva il vino buono. Aveva da un pezzo sotterrata la moglie che gli aveva fatto le due figlie, fatta da poco un’altra figliola con questa donna che adesso era entrata in casa, e per quanto già vecchio scherzava e comandava sempre lui.

Il sor Matteo non aveva mai lavorato la_terra, era un signore sor Matteo, ma neanche aveva studiato o viaggiato. Salvo quella volta dell’Africa, non era mai andato piú in là di Acqui. Aveva avuto la mania delle donne — lo diceva anche Cirino — come suo nonno e suo padre avevano avuto la mania della roba e messo insieme le cascine. Erano sangue cosí, fatto di terra e di voglie sostanziose, gli piaceva l’abbondanza, a chi il vino, il grano, la carne, a chi le donne e i marenghi. Mentre il nonno era stato uno che zappava e lavorava le sue terre, già i figli eran cambiati e preferivano godersela. Ma ancora adesso il sor Matteo a un’occhiata sapeva dire quanti miria doveva fare una vigna, quanti sacchi quel campo, quanto concime ci voleva per quel prato. Quando il massaro gli portava i conti, si chiudevano di sopra in una stanza, e l’Emilia che serviva il caffè ci diceva che il sor Matteo sapeva già i conti a memoria e si ricordava di un carretto, di un cestino, di una giornata dell’anno prima perduta.

Quella scala che conduceva di sopra, dietro la porta a vetri, io per un pezzo non ci salii, mi faceva troppa paura. L’Emilia che andava e veniva e mi poteva comandare perché era nipote del massaro e quando di sopra avevano qualcuno serviva lei col grembialino, l’Emilia a volte mi chiamava dalle finestre, dal terrazzo, che salissi, facessi, le portassi qualcosa. Io cercavo di sparire sotto il portico. Una volta che dovetti andar su con un secchio, lo posai sui mattoni del pianerottolo e scappai. E mi ricordo la mattina, che c’era da far qualcosa alla grondaia sul terrazzo, e mi chiamarono a tenere la scala per l’uomo che aggiustava. Passai il pianerottolo, traversai due stanze scure, piene di mobili, di almanacchi, di fiori — era tutto lucido, leggero, come gli specchi — , io camminavo scalzo sui mattoni


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