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XIV.

Pareva un destino. Certe volte mi chiedevo perché, di tanta gente viva, non restassimo adesso che io e Nuto, proprio noi. La voglia che un tempo avevo avuto in corpo (un mattino, in un bar di San Diego, c’ero quasi ammattito) di sbucare per quello stradone, girare il cancello tra il pino e la volta dei tigli, ascoltare le voci, le risate, le galline, e dire «Eccomi qui, sono tornato» davanti alle facce sbalordite di tutti — dei servitori, delle donne, del cane, del vecchio — , e gli occhi biondi e gli occhi neri delle figlie mi avrebbero riconosciuto dal terrazzo — questa voglia non me la sarei cavata piú. Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna — dormivo all’Angelo e discorrevo col Cavaliere — , ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano piú. Da un pezzo non c’erano piú. Quel che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato. Nuto, l’unico che restava, era cambiato, era un uomo come me. Per dire tutto in una volta, ero un uomo anch’io, ero un altro — se anche avessi ritrovato la Mora come l’avevo conosciuta il primo inverno, e poi l’estate, e poi di nuovo estate e inverno, giorno e notte, per tutti quegli anni, magari non avrei saputo che farmene. Venivo da troppo lontano — non ero piú di quella casa, non ero piú come Cinto, il mondo mi aveva cambiato.

Le sere d’estate quando stavamo seduti sotto il pino sul trave nel cortile, a vegliare — passanti si soffermavano al cancello, donne ridevano, qualcuno usciva dalla stalla — , il discorso finiva sempre che i vecchi, massaro Lanzone, Serafina, e qualche volta, se scendeva, il sor Matteo, dicevano «Sí sí giovanotti, sí sí ragazze... pen-


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