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muschi e i miei studi campestri, non conoscevo per nome i suoi fiori del giardino, e di certi scarlatti, carnosi, osceni, non seppi dirle proprio nulla. Le ridevano gli occhi parlandone.

— I cattivi pensieri notturni, — le dissi, — diventano fiori. Non c’è nome che basti. Anche la scienza a un certo punto si ferma — . Lei rideva, abbracciandosi i gomiti, lusingata del mio gioco. Ci pensai quella notte perché nel mazzo sopra il tavolo c’era qualcuno di quei fiori. Mi chiesi se Cate vedendoli avrebbe apprezzato lo scherzo. Forse sí, ma non detto in quel modo, non truccato cosí. Una cosa quella sera avevo scoperto, un’altra prova ch’ero stato scemo e cieco anche stavolta: Cate era seria era padrona, Cate capiva come e meglio di me. Con lei il tono d’un tempo, baldanzoso e villano, non serviva piú a nulla. Ci pensai tutta la notte, e di notte nell’insonnia il suo sarcasmo ingigantiva. In questo trovavo una pace. Se Cate diceva che Dino era suo, non potevo non fidarmi.

Ci pensai fino all’alba; e l’indomani a colazione, quando l’Elvira ritornò da messa, mi dissi ridendo: «Se sapesse che cosa c’è in aria». Lei invece aveva sentito a Santa Margherita che la guerra non poteva durare piú molto, perché il papa aveva fatto un discorso consigliando che tutti vivessero in pace. Bastava volerlo col cuore e la pace era fatta. Non piú bombe né incendi né sangue. Non piú vendette né speranze di diluvio. L’Elvira era inquieta e felice. Io le dissi che andavo a passeggio e la lasciai che sfaccendava intorno al fuoco.

Siccome era domenica, alle Fontane c’eran tutti dal sabato sera. Vidi alla finestra Nando lo sposo sinistrato, vidi le sorelle di Fonso, che gli gridavano qualcosa. Salutai le ragazze, chiesi se Dino era già andato per i boschi. M’indicarono il prato là dietro. Volli lasciare tutto al caso e dissi a Giulia che gli dicesse ch’ero andato alla fontana. Belbo, grosso e eccitato, s’infilava già nel bosco. Lo chiamai, lo accucciai sul sentiero, gli dissi di attendere Dino. Mi mostrò i denti con un ringhio.

Quando fui sulla costa e le voci si spensero, immaginai la corsa dei due in mezzo ai tronchi, la bella avventura. Chi sa se Dino fra vent’anni si sarebbe ricordato quell’ora, l’odore del sole, le voci lontane, i scivoloni sulla pietra? Mi giunse un ansito, un fruscio, e apparve Belbo. Si fermò e mi guardava. Era solo. Tesi il braccio e gli dissi: — Va’ via. Ritorna con Dino. Va’ via — . Si accosciò e appiatti il muso per terra. — Va’ via — . Mi chinai per raccogliere


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