Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/429


messo. Lasciare la strada, inoltrarsi nelle conche e nei cacti, sotto le stelle, era possibile?

Lo starnuto di un cane, piú vicino, e un rotolio di pietre mi fece saltare. Spensi il cruscotto; lo riaccesi quasi subito. Per passare la paura, mi ricordai che verso sera avevo superato un carretto di messicani, tirato da un mulo, carico che sporgeva, di fagotti, di balle di roba, di casseruole e di facce. Doveva essere una famiglia che andava a fare la stagione a San Bernardino o su di là. Avevo visto i piedi magri dei bambini e gli zoccoli del mulo strisciare sulla strada. Qua calzonacci bianco sporco sventolavano, il mulo sporgeva il collo, tirava. Passandoli avevo pensato che quei tapini avrebbero fatto tappa in una conca — alla stazione 37 quella sera non ci arrivavano certo.

Anche questi, pensai, dove ce l’hanno casa loro? Possibile nascere e vivere in un paese come questo? Eppure si adattavano, andavano a cercare le stagioni dove la terra ne dava, e facevano una vita che non gli lasciava pace, metà dell’anno nelle cave, metà sulle campagne. Questi non avevano avuto bisogno di passare per l’ospedale di Alessandria — il mondo era venuto a stanarli da casa con la fame, con la ferrata, con le loro rivoluzioni e i petroli, e adesso andavano e venivano rotolando, dietro al mulo. Fortunati che avevano un mulo. Ce n’era di quelli che partivano scalzi, senza nemmeno la donna.

Scesi dalla cabina del camioncino e battei i piedi sulla strada per scaldarmeli. La pianura era smorta, macchiata di ombre vaghe, e nella notte la strada si vedeva appena. Il vento scricchiolava sempre, agghiacciato, sulla sabbia, e adesso i cani tacevano; si sentivano sospiri, ombre di voci. Avevo bevuto abbastanza da non prendermela piú. Fiutavo quell’odore di erba secca e di vento salato e pensavo alle colline di Fresno.

Poi venne il treno. Cominciò che pareva un cavallo, un cavallo col carretto su dei ciottoli, e già s’intravedeva il fanale. Lí per lí avevo sperato che fosse una macchina o quel carretto dei messicani. Poi riempí tutta la pianura di baccano e faceva faville. Chi sa cosa ne dicono i serpenti e gli scorpioni, pensavo. Mi piombò addosso sulla strada, illuminandomi dai finestrini l’automobile, i cacti, una bestiola spaventata che scappò a saltelli; e filava sbatacchiando, risucchiando l’aria, schiaffeggiandomi. L’avevo tanto aspettato, ma quando il buio ricadde e la sabbia tornò a scricchiolare, mi dicevo


425