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ammazzata dal fulmine, l’altra, Angiolina, aveva fatto sette figli e poi s’era coricata con un tumore nelle costole, aveva penato e gridato tre mesi — il dottore saliva lassú una volta all’anno — , era morta senza nemmeno vedere il prete. Finite le figlie, il vecchio non aveva piú nessuno in casa che gli desse da mangiare e si era messo a girare le campagne e le fiere; il Cola l’aveva ancora intravisto, con un barbone bianco e pieno di paglie, l’anno prima della guerra. Era morto finalmente anche lui, sull’aia di una cascina, dov’era entrato a mendicare.

Cosí era inutile che andassi a Cossano a cercare le mie sorellastre, a vedere se si ricordavano ancora di me. Mi restò in mente l’Angiolina distesa a denti aperti, come sua madre quell’inverno ch’era morta.

Andai invece un mattino a Canelli, lungo la ferrata, per la strada che ai tempi della Mora avevo fatto tante volte. Passai sotto il Salto, passai sotto il Nido, vidi la Mora coi tigli che toccavano il tetto, il terrazzo delle ragazze, la vetrata, e l’ala bassa dei portici dove stavamo noialtri. Sentii voci che non conoscevo, tirai via.

A Canelli entrai per un lungo viale che ai miei tempi non c’era, ma sentii subito l’odore — quella punta di vinacce, di arietta di Belbo e di vermut. Le stradette erano le stesse, con quei fiori alle finestre, e le facce, i fotografi, le palazzine. Dove c’era piú movimento era in piazza — un nuovo bar, una stazione di benzina, un va e vieni di motociclette nel polverone. Ma il grosso platano era là. Si capiva che i soldi correvano sempre.

Passai la mattinata in banca e alla posta. Una piccola città — chi sa, intorno, quante altre ville e palazzotti sulle colline. Da ragazzo non mi ero sbagliato, nel mondo i nomi di Canelli contavano, di qui si apriva una finestra spaziosa. Dal ponte di Belbo guardai la valle, le colline basse verso Nizza. Niente era cambiato. Solo l’altr’anno c’era venuto col carro un ragazzo a vender l’uva insieme al padre. Chi sa se anche per Cinto Canelli sarebbe stata la porta del mondo.

M’accorsi allora che tutto era cambiato. Canelli mi piaceva per se stessa, come la valle e le colline e le rive che ci sbucavano. Mi piaceva perché qui tutto finiva, perch’era l’ultimo paese dove le stagioni non gli anni s’avvicendano. Gli industriali di Canelli potevano fare tutti gli spumanti che volevano, impiantare uffici, macchine, vagoni, depositi era un lavoro che facevo anch’io — di qui


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