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— Lei, — mi disse, — non sa che cos’è vivere senza un pezzo di terra in questi paesi. Lei, dove ha i suoi morti?
Gli dissi che non lo sapevo. Tacque un momento, si interessò, si stupí, scosse il capo.
— Mi rendo conto, — disse piano. — È la vita.
Lui purtroppo aveva un morto recente al cimitero del paese. Da dodici anni e gli sembrava ieri. Non un morto com’è umano averne, un morto che ci si rassegna, che ci si pensa con fiducia. — Ho fatto molti stupidi errori, — mi disse, — se ne fanno nella vita. I veri acciacchi dell’età sono i rimorsi. Ma una cosa non mi perdono. Quel ragazzo...
Eravamo arrivati al gomito della strada, sotto le canne. Si fermò e balbettò: — Lei sa com’è morto?
Feci cenno di sí. Parlava con le mani strette al pomo del bastone. — Ho piantato questi alberi, — disse. Dietro le canne si vedeva un pino. — Ho voluto che qui in cima alla collina la terra fosse sua, come piaceva a lui, libera e selvatica come il parco dov’è stato ragazzo...
Era un’idea. Quella macchia di canne e, dietro, i pini rossastri e l’erba sotto, rigogliosa, mi ricordavano la conca in cima alla vigna di Gaminella. Ma qui c’era di bello ch’era la punta della collina e tutto finiva nel vuoto.
— In tutte le campagne, — gli dissi, — ci vorrebbe un pezzo di terra cosí, lasciato incolto... Ma la vigna lavorarla, — dissi.
Ai nostri piedi si vedevano quei quattro filari disgraziati. Il Cavaliere fece una smorfia spiritosa e scosse il capo. — Sono vecchio, — disse. — Villani.
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