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VIII.

Al casotto di Gaminella decisi di tornare soltanto con Nuto, perché il Valino mi lasciasse entrare in casa. Ma per Nuto questa strada è fuori mano. Io invece ci passavo sovente e capitava che Cinto mi aspettava sul sentiero o sbucava dalle canne. Si appoggiava al muretto con la gamba divaricata e mi lasciava discorrere.

Ma dopo quei primi giorni, finita la festa e il torneo di pallone, l’albergo dell’Angelo si rifece tranquillo e quando, nel brusio delle mosche, prendevo il caffè alla finestra guardando la piazza vuota, mi trovai come un sindaco che guarda il paese dal balcone del municipio. Non l’avrei detto, da ragazzo. Lontano da casa si lavora per forza, si fa fortuna senza volerlo — far fortuna vuol dire appunto essere andato lontano e tornare cosí, arricchito, grand’e grosso, libero. Da ragazzo non lo sapevo ancora, eppure avevo sempre l’occhio alla strada, ai passanti, alle ville di Canelli, alle colline in fondo al cielo. È un destino cosí, dice Nuto, — che in confronto con me non si è mosso. Lui non è andato per il mondo, non ha fatto fortuna. Poteva succedergli come succede in questa valle a tanti — di venir su come una pianta, d’invecchiare come una donna o un caprone, senza sapere che cosa succede di là dalla Bormida, senza uscire dal giro della casa, della vendemmia, delle fiere. Ma anche a lui che non si è mosso è toccato qualcosa, un destino — quella sua idea che le cose bisogna capirle, aggiustarle, che il mondo è mal fatto e che a tutti interessa cambiarlo.

Capivo che da ragazzo, anche quando facevo correre la capra, quando d’inverno rompevo con rabbia le fascine mettendoci il piede sopra, o giocavo, chiudevo gli occhi per provare se riaprendoli la collina era scomparsa — anche allora mi preparavo al mio destino,


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