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l’erba. Cinto, scostandosi, guardava a terra e non rispose. Allora il Valino fece un passo e con la mano libera menò un salice a frustata e Cinto saltò via e il Valino incespicò e si drizzò. Cinto, in fondo alla riva, adesso lo guardava.

Senza parlare, il vecchio s’incamminò per la costa, coi salici in braccio. Non si voltò nemmeno quando fu in cima. Mi parve d’essere un ragazzo venuto a giocare con Cinto, e che il vecchio avesse menato a lui non potendo prendersela con me. Io e Cinto ci guardammo ridendo, senza parlare.

Scendemmo la riva sotto la volta fredda degli alberi, ma bastava passare nelle pozze scoperte, al sole, per sentire l’afa e il sudore. Io studiavo la parete di tufo, quella di fronte al nostro prato, che sosteneva la vigna del Morone. Si vedevano in cima, sopra i rovi, sporgere le prime viti chiare e un bell’albero di pesco con certe foglie già rosse come quello che c’era ai miei tempi e qualche pesca cadeva allora nella riva e ci sembrava piú buona delle nostre. Queste piante di mele, di pesche, che d’estate hanno foglie rosse o gialle, mi mettono gola ancora adesso, perché la foglia sembra un frutto maturo e uno si fa sotto, felice. Per me tutte le piante dovrebbero essere a frutto; nella vigna è cosí.

Con Cinto parlavamo dei giocatori di pallone, poi di quelli di carte; e arrivammo alla strada, sotto il muretto della riva, in mezzo alle gaggie. Cinto aveva già visto un mazzo di carte in mano a uno che teneva banco in piazza, e mi disse che aveva a casa un due di picche e un re di cuori che qualcuno aveva perduto sullo stradone. Erano un po’ sporche ma buone e se avesse poi trovato anche le altre potevano servire. Io gli dissi che c’era di quelli che giocavano per vivere e si giocavano le case e le terre. Ero stato in un paese, gli dissi, dove si giocava con la pila dei marenghi d’oro sul tavolo e la pistola nel gilè. E anche da noi una volta, quand’ero ragazzo, i padroni delle cascine, quando avevano venduta l’uva o il grano, attaccavano il cavallo e partivano sul fresco, andavano a Nizza, a Acqui, coi sacchetti di marenghi e giocavano tutta la notte, giocavano i marenghi, poi i boschi, poi i prati, poi la cascina, e il mattino dopo li trovavano morti sul letto dell’osteria, sotto il quadro della Madonna e il ramulivo. Oppure partivano sul biroccino e piú nessuno ne sapeva niente. Qualcuno si giocava anche la moglie, e cosí i bambini restavano soli, li cacciavano di casa, e sono questi che si chiamano i bastardi.


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