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La settimana si faceva saltando su una gamba sola, come stava lui, su delle righe di sassolini senza toccare i sassolini. I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiú — allora si vedeva, non c’erano quegli alberi — tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino.

Cinto ascoltava a bocca aperta, con la sua crosta sotto l’occhio, seduto contro la sponda.

— Ero un ragazzo come te, — gli dissi, — e stavo qui con Padrino, avevamo una capra. Io la portavo in pastura. D’inverno quando non passavano piú i cacciatori era brutto, perché non si poteva neanche andare nella riva, tant’acqua e galaverna che c’era, e una volta — adesso non ci sono piú — da Gaminella scendevano i lupi che nei boschi non trovavano piú da mangiare, e la mattina vedevamo i loro passi sulla neve. Sembrano di cane ma sono piú profondi. Io dormivo nella stanza là dietro con le ragazze e sentivamo di notte il lupo lamentarsi che aveva freddo nella riva...

— Nella riva l’altr’anno c’era un morto, — disse Cinto.

Mi fermai. Chiesi che morto.

— Un tedesco, — mi disse. — Che l’avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato...

— Cosí vicino alla strada? — dissi.

— No, veniva da lassú, nella riva. L’acqua l’ha portato in basso e il Pa l’ha trovato sotto il fango e le pietre...


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