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VI.

Allora io dissi che, se il Vaiino tornava, lo aspettavo. Risposero insieme che delle volte tardava.

Delle due quella che aveva legato il cane — era scalza e cotta dal sole e aveva addirittura un po’ di pelo sulla bocca — mi guardava con gli occhi scuri e circospetti del Valino. Era la cognata, quella che adesso dormiva con lui; standogli insieme era venuta a somigliargli.

Entrai nell’aia (di nuovo il cane si avventò), dissi ch’io su quell’aia c’ero stato bambino. Chiesi se il pozzo era sempre là dietro. La vecchia, seduta adesso sulla soglia, borbottò inquieta; l’altra si chinò e raccolse il rastrello caduto davanti all’uscio, poi gridò al ragazzo di guardare dalla riva se vedeva il Pa. Allora dissi che non ce n’era bisogno, passavo là sotto e mi era venuta voglia di rivedere la casa dov’ero cresciuto, ma conoscevo tutti i beni, la riva fino al noce, e potevo girarli da solo, trovarci uno.

Poi chiesi: — E cos’ha questo ragazzo? è caduto su una zappa?

Le due donne guardarono da me a lui, che si mise a ridere — rideva senza far voce e serrò subito gli occhi. Conoscevo questo gioco anch’io.

Dissi: — Cos’hai? come ti chiami?

Mi rispose la magra cognata. Disse che il medico aveva guardato la gamba di Cinto quell’anno ch’era morta Mentina, quando stavano ancora all’Orto — Mentina era in letto che esclamava e il dottore il giorno prima che morisse le aveva detto che questo qui non aveva le ossa buone per colpa di lei. Mentina gli aveva risposto che gli altri figli ch’eran morti soldati erano sani, ma che questo era nato cosí, lei lo sapeva che quel cane arrabbiato che voleva


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