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VI.

Appena Cate uscí di nuovo nel cortile, le andai incontro. Lei non si era accorta di nulla. Forse credeva che volessi riparlare dell’Elvira e mi fece gli occhiacci e si fermò.

— Si chiama Corrado, — le dissi.

Mi guardò interdetta.

— È il mio nome, — le dissi.

Lei volse il capo, in quel suo modo baldanzoso. Guardò quegli altri, ai tavolini, nell’ombra. Susurrò spaventata: — Va’ via, che ci vedono.

Mi volsi anch’io, per venirle a fianco. S’incamminò e disse scherzando: — Non lo sapevi ch’è il suo nome?

— Perché gliel’hai messo?

Alzò le spalle e non rispose.

— Quanti anni ha Dino? — e la fermai.

Mi strinse il braccio e disse: — Dopo. Sii buono.

Chiacchierarono a lungo di guerra e di allarmi, quella sera. L’amico di Fonso era stato ferito in Albania e raccontava quel che tutti sapevano da un pezzo. — Ho provato a sposarmi per dormire dentro un letto, — diceva, — e adesso anche il letto è partito — . E la sposina: — Dormiremo nei prati, sta’ bravo — . Io m’ero seduto vicino alla vecchia, e tacevo, sbirciavo il profilo di Cate. Mi pareva quella notte che l’avevo ritrovata, che le parlavo e non sapevo chi era. Ogni volta piú cieco, ero stato. Un mese mi c’era voluto per capire che Dino vuol dire Corrado. Com’era la faccia di Dino? Chiudevo gli occhi e non riuscivo a rivederla.

Mi alzai di botto, per camminare nel cortile. — Mi accompagni là dietro? — disse Cate, e si alzò subito. M’incamminai con un senso


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