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Non sapevo in quei giorni se Cate approvava che stessi con Dino. La vecchia sí — glielo toglievo dai piedi. Cate lo guardava sorpresa girarmi intorno, raccogliere fiori, strapparmi la lente di mano, e qualche volta lo richiamò vivamente, come si fa coi bambini che mancano di rispetto agli adulti. Dino taceva, s’aggobbiva, e continuava a bassa voce. Poi correva a mostrarle i disegni o le parti di un fiore. Le gridava che gli avrei portato un libro di piante. Cate lo prendeva, gli aggiustava i capelli, gli diceva qualcosa. Io quasi preferivo le volte che Cate era via.

Pensai che Cate era gelosa di suo figlio. Una sera la colsi che mi guardava con un’ombra di scherno. — Cate, ti faccio proprio schifo? — le dissi piano, canzonando. Si sentí presa alla sprovvista e abbassò gli occhi e la voce. — Perché? — balbettò, lei che di solito troncava quei discorsi.

— Eravamo ragazzi, — le dissi. — Le cose non si sanno mai a tempo.

Ma già lei rialzava la faccia e parlava attraverso il cortile.

Poco dopo mi disse: — Lo sanno le tue donne che ti abbassi a parlare con noi? Glielo dici tornando la notte che sei stato all’osteria? Com’è che si chiama quella storta che vuole sposarti? L’Elvira?

Le avevo raccontato queste cose scherzandoci. — Che ti piglia? — le dissi. — Vengo con te perché mi piace. Mi piacete tutti quanti. Giro i boschi e le strade. Sto bene con voi come sto bene in collina.

— Ma all’Elvira lo dici?

— Cosa c’entra l’Elvira?

— L’Elvira è la mamma del tuo cane, — disse adagio. — Non vuol sapere dove andate tutto il giorno?

— L’Elvira è una scema.

— Però ci stai bene. Come stai bene con noialtri.

— Sei gelosa, Cate?

— Di chi? Fammi ridere. Sono gelosa di Fonso?

— Ma Fonso è un ragazzo, — gridai. — Cosa c’entra?

— Per te siamo tutti ragazzi, — mi disse. — Siamo come il tuo cane.

Non le cavai altro, quella sera. Vennero Fonso, le ragazze, Dino. Cianciammo, ascoltammo, qualcuno cantò. C’erano facce nuove. Una coppia di sposi sinistrata — conoscenti di Fonso — , si bevette


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