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V.

Finí giugno, le scuole erano chiuse, stavo in collina tutto il tempo. Ci camminavo sotto il sole, sui versanti boscosi. Dietro le Fontane, la terra era lavorata a campo e vigna, e ci andavo sovente, in certe conche riparate, a raccogliere erbe e muschi, mia antica passione di quando ragazzo studiavo scienze naturali. A ville e giardini io preferivo la campagna dissodata, e i suoi margini dove il selvatico riprende terreno. Le Fontane era il luogo piú adatto, di là cominciavano i boschi. Vidi Cate altre volte, di mattina e di sera, e non parlammo di noi; conobbi Fonso, conobbi gli altri da vicino.

Con Fonso discutevo scherzando. Era un ragazzo, non aveva diciott’anni. — In questa guerra, — gli dicevo, — andremo sotto tutti quanti. Chiameranno te a vent’anni e me a quaranta. Come stiamo in Sicilia?

Fonso faceva il fattorino in una ditta meccanica; ogni sera arrivava con madre e sorelle, e la mattina ripartiva a rompicollo in bicicletta. Era cinico, burlone, si accendeva di colpo.

— Parola, — diceva, — se mi chiamano sotto, salta in aria il distretto.

— Anche tu. Se la guerra ti brucia. Si aspetta sempre che ci bruci, per svegliarci.

— Se tutti quelli che van sotto si svegliassero, — diceva Fonso, — sarebbe già bello.

L’anno prima, alle scuole serali, Fonso aveva preso gusto alle statistiche, ai giornali, alle cose che si sanno. Doveva averci colleghi, a Torino, che gli aprivano gli occhi. Della guerra sapeva tutto; non dava mai tregua; chiedeva qualcosa e già troncava la


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