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tra i rovi. Andai vagamente, come si va sotto la luna, ingannato dai tronchi. Di nuovo, Torino, i rifugi, gli allarmi mi parvero cose remote, fantasie. Ma anche l’incontro che cercavo, quelle voci nell’aria, anche Cate era qualcosa d’irreale. Mi chiedevo che cosa avrei detto se avessi potuto parlarne, per esempio con Gallo.
Arrivai sulla strada che pensavo alla guerra, alle inutili morti. Il cortile era vuoto. Cantavano dal prato dietro la casa e, siccome Belbo era rimasto a mezza costa, nessuno s’accorse di me. Nell’ombra vaga rividi la griglia, i tavolini di pietra, la porta socchiusa. A mezz’aria, da un balcone di legno pendevano pannocchie dell’anno passato. Tutta la casa aveva un’aria abbandonata, quasi rustica.
«Se Cate esce fuori, — pensai, — tutto può dirmi, per vendicarsi».
Fui sul punto di andarmene, tornare nei boschi. Sperai che Cate non ci fosse, che fosse rimasta a Torino. Ma un ragazzetto girò l’angolo correndo, e si fermò. Mi aveva visto.
— C’è nessuno? — gli dissi.
Mi guardava esitante. Era un bianco ragazzo, vestito alla marinara, quasi comico in quello scialbo di luna. La prima sera non l’avevo notato.
Andò alla porta e chiamò dentro. Disse — Mamma — . Uscí Cate con un piatto di bucce. In quel momento piombò Belbo di carriera, rotolandosi e schizzando nell’ombra. Il ragazzo si strinse alle gonne di Cate, impaurito.
— Scemo, — gli disse Cate, — non è niente.
— Siete ancor vivi? — dissi a Cate.
Lei s’era mossa verso la griglia per buttare le bucce. Si fermò a mezza strada. Girò la testa — era piú alta di un tempo — riconobbi il sorriso beffardo. — Prende in giro? — mi disse. — Viene apposta per prendere in giro?
— Ieri notte, — dissi. — Non vi ho sentiti cantare e credevo che fosse rimasta a Torino.
— Dino, — disse al ragazzo. Gettò le bucce e lo mandò in casa col piatto.
Quando fu sola, non rideva piú. Disse: — Perché non vai con gli altri?
— È tuo figlio? — le dissi.
Mi guardò senza aprir bocca.
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